PLINIO IL GIOVANE

Salvatore Lo Leggio: Plinio il Giovane. In diretta da Roma antica (Lidia Storoni)

Plinio il Giovane (facciata del Duomo di Como)

Biografia

Della vita di Plinio il Giovane ci informa lui stesso: nel suo Epistolario, infatti, parla molto di sé e dice che Cecilio Secondo nasce nel 61 a  Secundum Comum tra il 61 o il 62. La famiglia d’origine, agiata e prestigiosa nella provincia, pur non avendo il rango di senatoriale, era tra le più illustri, in cui regnava un forte rispetto per la tradizione. Alla morte del padre venne adottato dallo zio, da cui assunse il nome, Plinio il Vecchio, che lo portò a Roma e lo affidò agli insegnamenti retorici di Quintiliano.

Inziò la sua attività politica sotto Domiziano, fu infatti tribuno militare in Siria, questore e pretore; raggiunse il culmine del cursus honorum con la nomina di console nel 100 sotto Traiano, riuscendo inoltre ad ottenere la  sua piena fiducia, diventando un consigliere dell’imperatore, entrando a far parte del collegium principis. Nel 111 venne mandato, come legato consolare (governatore) in Asia Minore, dove dovette affrontare la difficile questione dell’espandersi della religione cristiana. Dovette morire intorno al 113, non avendo più suoi notizie successive a quella data.

Opere

Sappiamo probabilmente che fu autore di versi, sebbene lui le ritenesse un lusus con cui intrattenere i suoi alti e colti amici, ma al di là di pochi versi non ci è giunto niente, lo stesso accade per la sua attività forense; le uniche opere a noi giunte sono il Panegyricum Traiani e l’Epistolario.

Panegyricum Traiani

S’intende per panegirico un genere letterario greco vicino all’encomio. Ottenuto l’incarico consolare da Traiano, Plinio pronuncia un vero e proprio elogio dell’imperatore per ringraziarlo della carica da lui ottenuta nel 100:ZB Zürich / C. Plinii Caecilii Secundi Panegyricus Traiano imperatori dictus ...

Edizione del 1748

ELOGIO PER UN NUOVO PRINCIPE

Discernatur orationibus nostris diversitas temporum, et ex ipso genere gratiarum agendarum intelligatur, cui, quando sint actae. Nusquam ut deo, nusquam ut numini blandiamur: non enim de tyranno, sed de cive; non de domino, sed de parente loquimur. Unum ille se ex nobis, et hoc magis excellit atque eminet, quod unum ex nobis putat; nec minus hominem se, quam hominibus praeesse meminit. Intelligamus ergo bona nostra, dignosque nos illis usu probemus, atque identidem cogitemus, quam sit indignum, si maius principibus praestemus obsequium, qui servitute civium, quam qui libertate laetantur. Et populus quidem Romanus dilectum principum servat, quantoque paullo ante concentu formosum alium, hunc fortissimum personat; quibusque aliquando clamoribus gestum alterius et vocem, huius pietatem, abstinentiam, mansuetudinem laudat. Quid nos ipsi? divinitatem principis nostri, an humanitatem, temperantiam, facilitatem, ut amor et gaudium tulit, celebrare universi solemus? Iam quid tam civile, tam senatorium, quam illud additum a nobis «Optimi» cognomen? quod peculiare huius et proprium arrogantia priorum principum fecit. Enimvero quam commune, quam ex aequo, quod felices nos, felicem illum praedicamus? alternisque votis, «haec faciat, haec audiat», quasi non dicturi, nisi fecerit, comprecamur? Ad quas ille voces lacrimis etiam ac multo pudore suffunditur. Agnoscit enim sentitque, sibi, non principi, dici.

Dai nostri discorsi si veda subito quanto i tempi siano diversi e bastino le caratteristiche dei ringraziamenti per far capire a chi e quando furono pronunciati. Non ricorriamo mai a piaggerie che lo proclamino un dio, che lo proclamino un essere sovrumano; infatti non parliamo di un tiranno ma di un cittadino, non di un padrone ma di un padre. Ad accrescergli superiorità e preminenza è proprio questo suo crederci uno di noi, questo suo ricordarsi non meno di essere uomo quanto di essere a capo degli uomini. Rendiamoci conto pertanto della nostra fortuna, dimostriamo di meritarcela con l’uso che ne facciamo ed esaminiamo assiduamente se non prestiamo una più solerte obbedienza agli imperatori che si compiacciono della schiavitù dei cittadini che non a quelli che ci tengono alla loro libertà. Il popolo romano sa certamente operare una distinzione tra gli imperatori: non molto tempo fa, in un’altro, era la bellezza che veniva acclamata dalla folla compatta, in questo invece è l’impavida intrepidezza che viene glorificata con un identico applauso; una volta era il modo di porgere e di cantare di un’altro che gli strappavano grida di entusiasmo, ora invece sono la devozione, il disinteresse e la benevolenza di questo che suscitano uguali ovazioni. E noi personalmente come ci comportiamo? Tutti insieme, trascinati dall’amore e dalla gioia, siamo soliti esaltare pubblicamente la divinità del nostro imperatore oppure la sua umanità, la sua discrezione e la sua arrendevolezza? E poi che cosa c’è che si addica tanto ad un cittadino, che si addica tanto ad un senatore quanto la denominazione di «Ottimo» che noi gli abbiamo assegnata? La boria altezzosa degli imperatori precedenti gliene ha fatto un appellativo specifico ed individuale. Proprio! Quale atmosfera di solidarietà e di uguaglianza testimoniamo quando affermiamo in pubblico che noi siamo fortunati e che egli è fortunato, e quando, alternando l’augurio, esprimiamo questi voti: «Tale sia sempre sia la sua condotta, tale sia la sua gloria», facendo capire che non diremo così se tale non fosse la sua condotta! A queste esclamazione il suo volto si bagna di lacrime e si cosparge di rossore. Infatti si accorge e sente che quelle voci di plauso sono dirette alla sua persona e non alla sua dignità.
(F. Trisoglio)


Traiano

Da questo passo intendiamo come Plinio voglia “esaltare” l’essere princeps di Traiano rispetto ad altri principes che lo hanno preceduto (chiaro il riferimento a Domiziano e a Nerone): cioè essere sì un princeps ma soprattutto un cives, circondato omnibus civibus, cioè, sembra dirci Plinio, un “primus inter pares”; ma non è esattamente così.

Innanzitutto il “primus inter pares” di memoria augustea richiedeva un difficile equilibrio tra il Cesare ed il Senato; in questo caso il senato, composto soprattutto da provinciali nominati dallo stesso Tiberio, non poteva che essere sottomesso; in secondo luogo la qualità che Plinio vuole assegnargli appartiene maggiormente ad una captatio benevolentiae che ad una realtà dei fatti. Infatti egli qui sembra voler dar sfoggio dell’oratoria epidittica, all’interno della quale s’inserisce quella elogiativa. E’ un tipo di oratoria nata in Grecia, nel periodo di Alessandro Magno e che si era affermata, a Roma, in tempi piuttosto recenti. Molto presumibilmente dovevano essere piuttosto numerosi, ma possediamo soltando il Panegirico di Plinio il Giovane, per farcene un’idea.

Quello che qui Plinio vuole dimostrare è come tali elogia, precedentemente a Traiano, fossero falsi, invece il suo corrisponde a verità. Se avesse usato uno stile meno ridondante, iperbolico, retoricamente eccessivo, non avremmo avuto nessun problema a ritenere il giudizio dell’intellettuale romano corretto: sono gli stessi storici a ricordarci la grandezza di Traiano che aveva allargato i confini di Roma, l’aveva abbellita (si pensi al Forum Traiani), aveva ottenuto una “pace sociale” aiutando i più deboli, attraverso le “elargitiones”; ma lo stile smaccatamente adulatorio, più che “sminuire” la “grandezza” di Traiano, ledono la “sincerità” del suo “laudatore” (anche se non siamo lontani dal credere che la superficialità dell’autore corrisponda alla “verità” del suo sentire).

EpistolarioPlinio il Giovane e le lettere con Traiano sui cristiani - La Nuova Bussola Quotidiana

Per parlare dell’Epistolario di Plinio dobbiamo rifarci non a quello di Seneca, ma a quello di Cicerone. Se il primo, infatti, aveva un fine filosofico facendo sì che l’autore neroniano svilupasse le sue teorie da trasmettere ad un solo destinatario (Lucilio), il secondo non aveva un filo logico, ma nasceva da episodi che mano mano capitavano al protagonista. Lo stesso fa Plinio che non raccoglie le sue lettere (che nessuno può obiettare che non siano state realmente spedite) in modo organico, ma in modo oseremmo dire casuale, per conservare, come ci dice l’autore stesso, quella varietas che rende piacevole la lettura.

Le lettere sono 247, raccolte in nove libri, a cui se ne aggiunge un terzo che contiene la corrispondenza tra Plinio e l’imperatore Traiano.

Non possiamo trovare nelle lettere dello scrittore comasco la profondità del pensatore stoico, nè l’umanità dell’uomo Cicerone: infatti esse risultano straordinarie per il modo in cui ci fa rivivevere la vita di corte offrendoci squarci della vita mondana dell’alta società imperiale. Uomo dalle molteplici amicizie, Plinio abbonda le lettere di parole elogiative verso ognuno di loro; ma ciò non toglie che talvolta autocelebri anche se stesso: scrive per incensare le opere del suo amico Tacito o per i versi di Marziale; per complimentarsi verso qualche lieto evento o per il raggiumento di qualche carica; commenta in modo positivo l’attività forense di qualcuno.

Non mancano lettere in cui il nostro esprime l’amore per la campagna, raccontando la bellezza di luoghi nei quali egli possedeva meravigliose ville, oppure le eleganti prose in cui mostra lo splendore di luoghi visitati.

Interessanti dal suo epistolario la lettera in cui Plinio, su richiesta di Tacito, che molto probabilmente voleva inserire l’episodio nel suo libro storico, parla della morte dello zio:

PLINIO IL VECCHIO E L'ERUZIONE DEL VULCANO
(6, 10)

Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum, ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes (incertum procul intuentibus, ex quo monte, Vesuvium fuisse postea cognitum est), oriebatur, cuius similitudinem et formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum quibusdam ramis diffundebatur, credo, quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa, prout terram cineremve sustulerat. Magnum propiusque noscendum, ut eruditissimo viro, visum. Iubet liburnicam aptari; mihi, si venire una vellem, facit copiam; respondi studere me malle, et forte ipse, quod scriberem, dederat. Egrediebatur domo; accipit codicillos Rectinae Casci imminenti periculo exterritae (nam villa eius subiacebat, nec ulla nisi navibus fuga); ut se tanto discrimini eriperet, orabat. Vertit ille consilium et, quod studioso animo incohaverat, obit maximo. Deducit quadriremes, ascendit ipse non Rectinae modo, sed multis (erat enim frequens amoenitas orae) laturus auxilium. Properat illuc, unde alii fugiunt, rectumque cursum, recta gubernacula in periculum tenet adeo solutus metu, ut omnis illius mali motus, omnis figuras, ut deprenderat oculis, dictaret enotaretque. Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior, iam pumices etiam nigrique et ambusti et fracti igne lapides, iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia. Cunctatus paulum, an retro flecteret, mox gubernatori, ut ita faceret, monenti: «Fortes», inquit, «fortuna iuvat, Ponponianum pete!» Stabiis erat, diremptus sinu medio (nam sensim circumactis curvatisque litoribus mare infunditur); ibi, quamquam nondum periculo appropinquante, conspicuo tamen et, cum cresceret, proximo, sarcinas contulerat in naves certus fugae, si contrarius ventus resedisset. Quo tunc avunculus meus secundissimo invectus; complectitur trepidantem, consolatur, hortatur, utque timorem eius sua securitate leniret, deferri in balineum iubet: lotus accubat, cenat, aut hilaris aut, quod aeque magnum, similis hilari. Interim e Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur. Ille agrestium trepidatione ignes relictos desertasque villas per solitudinem ardere in remedium formidinis dictitabat. Tum se quieti dedit et quievit verissimo quidem somno; nam meatus animae, qui illi propter amplitudinem corporis gravior et sonantior erat, ab iis, qui limini obversabantur, audiebatur. Sed area, ex qua diaeta adibatur, ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora, exitus negaretur. Excitatus procedit, seque Pomponiano ceterisque qui pervigilaverant reddit. In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebis vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri videbantur. Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id monimentum adversus incidentia fuit. Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod adhuc vastum et adversum permanebat. Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque. Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum. Innitens servolis duobus adsurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu obstructo clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter interaestuans erat. Ubi dies redditus – is ab eo, quem novissime viderat, tertius – corpus, inventum integrum illaesum opertumque, ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior. Interim Miseni ego et mater – sed nihil ad historiam, nec tu aliud quam de exitu eius scire voluisti. Finem ergo faciam.

(L. Rusca)

L’ultimo giorno di Pompei, di Karl Pavlovic Brjullov, 1830-1833

Egli (Plinio il Vecchio) era a Miseno e comandava la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per vastità e per aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi d’acqua fredda, aveva fatto uno spuntino giacendo e stava studiando: chiese le calzature, salì a un luogo dal quale si poteva veder meglio quel fenomeno. Una nube si formava (a coloro che la guardavano così da lontano non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avvrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, proptesasio verso l’alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d’aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente, a trattio bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava. Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino. Ordina che si prepari un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andar con lui; gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto da Rettina, moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo che per nave): supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di dovere. Mette in mare la quadriremi e si imbarca lui stesso per recar aiuto non solo a Rettina, ma a molti altri, giacché per l’amenità del lido la zona era molto abitata. Si affretta là donde gli altri fuggono, va dritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura, da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice e anche dei ciottoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a far ciò, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci , punta verso Pomponiano!». Questi era a Stabia, dall’altra parte del golfo (giacché il mare si addentra seguendo la riva che va via via disegnando una curva). Quivi Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma alle viste però e col crescere potendo farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire, se il vento contrario si fosse quietato. Ma questo era allora tutto favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l’amico trepidante, lo rincuora, lo conforta, e per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno: lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria. Frattanto dal Monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui chiarore la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per calmare le paure, e cerca case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga di contadini. Poi si recò a riposare dormi di un autentico sonno: giacché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che passavano accanto alla soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell’appartamento, se era già talmente alzato, perché ricoperto dalla cenere mista alla lapilli virgola che, se egli si fosse più a lungo indugiato nella camera virgola non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato, ne esce raggiunge Pomponiano E gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano fra loro, se debbano rimanere in un luogo coperto o fuggire all’aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano l’abitazione e quasi l’avessero strappato dalle fondamenta sembrava che ora andasse da una parte ora dall’altra, per poi di assestarsi. D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia dei lapilli per quanto leggeri e porosi; tuttavia, confrontati i pericoli, egli scelse di uscire all’aperto. Ma se in lui prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa li assicurano con lenzuoli; fu questo il loro riparo contro quella pioggia. Già faceva giorno ovunque, ma colare regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancorché mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli voglio uscire sulla spiaggia e vedere da vicino se fosse possibile mettersi in mare; Ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando il sopra un lenzuolo disteso, chiese e richiese dell’acqua fresca e la bevve avidamente punto ma poi le fiamme il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, io suppongo, l’area ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione è bloccata la trachea che gli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata punto quando ritorno il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo) Il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l’aspetto più simile a un uomo che dorme, che è un morto. Frattanto a miseno io e la mamma… Pacio non importa alla storia virgola e tu non volevi conoscere altro che racconto della sua morte. Faccio dunque punto.

Pierre Henri de Valenciennes (1813)

Il celeberrimo passo di Plinio il Giovane dedicato al famoso zio, si muove su due livelli:

  • la descrizione con cui mostra l’avvenimento vulcanico attraverso un climax stilistico che permette anche una certa “suspance”, giocando con un pianissino o lontano per concludere con la morte di Plinio il Vecchio;
  • la figura dello zio, che contrasta con la violenza del vulcano, emergendo sia da un punto di vista filosofico (il bagno prima dell’esplosione sismica, ricorda la morte di Seneca), scientifico (la curiositas tipica per chi vuole capire la realtà), umano (la volontà di aiutare l’amico)

Il nostro, inoltre, mostra una grandissima perizia retorica utilizzando figure come quella del chiasmo, dell’allitterazione, dell’antitesi, a dimostrazione di una profonda eleganza stilistica.

Altra lettera fondamentale la leggiamo nel X libro, quella in cui chiede all’imperatore, come comportarsi con i membri della religione cristiana che si stava diffondendo in modo piuttosto esteso:

CHE FARE CON I CRISTIANI?
(10, 96)

Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant, detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit, nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, <in> iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus; perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. (…) Affirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum appellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri.

Jean-Léon Gérome: Ultime preghiere dei martiri cristiani (1883)

Non ho mai preso parte a nessuna istruttoria sul conto dei cristiani: pertanto non so quali siano abitualmente gli oggetti e i limiti sia della punizione che dell’inchiesta. Sono stato fortemente in dubbio se si debba considerare qualche differenza di età, oppure se i bambini nei più teneri anni vadano trattati alla stessa stregua degli adulti che hanno raggiunto il fiore della forza; se sia d’uopo mostrarsi indulgenti davanti al pentimento, oppure se a chi sia stato effettivamente cristiano non serva a nulla l’aver rinunciato; se si debba punire il nome in se stesso anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome. Provvisoriamente, a carico di coloro che mi venivano denunciati come cristiani, ho seguito questa procedura. Li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda volta e una terza volta, minacciando loro la pena capitale: se perseveravano, ordinavano che fossero messi a morte. (…) Attestavano poi che tutta la loro colpa, o tutto il loro errore, consisteva unicamente in queste pratiche: riunirsi abitualmente in un giorno stabilito prima del sorgere del sole, recitare tra di loro a due cori un’invocazione a Cristo considerandolo dio e obbligarsi con giuramento, non a perpretare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né aggressioni a scopo di rapina, né adulteri, a non eludere i propri impegni, a non rifiutare la restituzione di un deposito, quando ne fossero richiesti. Dopo aver terminato questi atti di culto, avevano la consuetudine di ritirarsi e poi di riunirsi di nuovo per prendere un cibo, che era, ad ogni modo, quello consueto e innocente; avevano però sospeso anche quest’uso dopo il mio editto con il quale, a norma delle tue disposizioni, avevo vietato l’esistenza di sodalizi. Ciò tanto più mi convinse della necessità di indagare che cosa ci fosse effettivamente di vero, attraverso a due schiave, che venivano chiamate diaconesse, ricorrendo anche alla tortura. Non ho trovato nulla, all’infuori di una superstizione balorda e squilibrata. Pertanto ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere.

Mentre Plinio è in Bitinia, sia per situazioni pratiche che per sciogliere qualche dubbio, si rivolge allo stesso Traiano, mostrando il rapporto di fiducia che ormai intercorreva tra il funzionario e l’imperatore.

Questa lettera ha lasciato più di un dubbio: “In passato l’epistola di Plinio è stata giudicata un falso, anche se elaborata non molto tempo dopo la morte dell’autore, visto che Tertulliano nell’Apologeticum dimostra di conoscere tanto la lettera pliniana quanto la risposta dell’imperatore; e l’opera tertullianea è datata 197. Decaduta l’ipotesi del testo apocrifo e riconosciuta l’autenticità della lettera, alcuni critici hanno tuttavia affermato che l’epistola era stata pesantemente rimaneggiata  e interpolata dall’intervento del martire Apollonio, vissuto nel II secolo. Altri studiosi, infine, hanno sostenuto che Plinio avrebbe costruito la lettera non a seguito di un’indagine da lui effettivamente condotta nella sua provincia, bens^ alla stregua di un passo liviano in cui lo storico aveva descritto la repressione dei Baccanali” (Conte – Pianezzola)

 

 

 

 

 

 

LUCIO APULEIO

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Immagine di Apuleio

Apuleio è il più grande narratore dell’antichità, la cui opera ci è giunta in modo integrale. Il carattere “misterico” ed “iniziatico” con cui la si è letta sin dal Medioevo, ha fatto del suo romanzo la base su cui si sono costruiti racconti favolosi o meno che hanno costituito la base della nostra civiltà.

Cenni biografici
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Resti romani di Medaura

Apuleio nasce in Africa, più precisamente a Madaura, oggi situata nell’attuale Algeria, intorno al 125. La tradizione ce lo tramanda con il prenome Lucius, ma dai critici si ritiene spurio in quanto corrisponde al nome del protagonista del suo romanzo. Di famiglia ricchissima, ereditò, insieme al fratello, ben due milioni di sesterzi, ricchezza che gli permise di ricevere, sin da principio, una straordinaria educazione culturale. Studiò dapprima a Cartagine, dove forse fu iniziato al culto di Esculapio, detto anche Asclepio, dio della medicina. Durante gli studi sembra si avvicinasse anche ad altri misteri, quali quelli eleusini (dedicati a Demetra, dea dell’agricoltura). Cominciò quindi a viaggiare, portando dappertutto la sua straordinaria abilità di conferenziere. Raggiunse Alessandria, centro molto importante a livello culturale, Ierapoli (nell’attuale Turchia) e Roma, dove fu iniziato al culto di Osiride. Nel 155, nella città di Oea (l’odierna Tripoli) incontrò un suo vecchio compagno di studio, Ponziano, il quale sembra lo convinse a sposare la non bella, ma ricchissima madre Pudentilla. L’intento del suo amico era quello di allontanare dalla madre i cosiddetti cacciatori d’eredità, ritenendo Apuleio lontano da qualsiasi interesse. La morte di entrambi fece intervenire i parenti di lei contro lo scrittore, accusandolo di aver praticato la magia per far innamorare la donna e quindi intascarne l’eredità. La felice difesa dell’autore, poi riportata nel De Magia, lo liberò da ogni accusa. Dopo questo episodio Apuleio si ritirò a vivere a Cartagine, dove rivestì cariche importantissime. Sembra che lì finisse la sua vita, ma non si ha la data certa. Non si hanno notizie di lui dopo il 170.

La filosofia

I concittadini di Medaura, sua città natale, eressero una statua ad Asculapio, dio della medicina, alla cui base vi era una dedica che così recitava: “Al filosofo platonico, cittadini di Medaura” quindi la dedicarono ad Apuleio. A dire il vero il platonismo cui egli fece parte è quello detto del “platonismo medio”. Tale filosofia prese piede proprio dalla crisi dello stoicismo e dell’epicureismo, adottando un sincretismo filosofico-religioso. Infatti, se per lo stoicismo “un dio è in noi”, in quanto siamo parte di un tutto unico, l’epicureismo prevede una totale lontananza dagli dei da noi. La filosofia cui Apuleio aderisce prevede viceversa la presenza dei daimonion (dèmoni) che fungono da mediatori tra il divino e l’umano. Ciò pone una specie di gerarchia tra ciò che sta al di sopra di noi nel cielo e gli umani che popolano la terra: in basso l’uomo, in mezzo i demoni, al di sopra gli dei. Se quest’ultimi sono totalmente privi di passione, questa, mano mano che si scende, domina la vita degli uomini.

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Il daimon di Socrate

Apuleio struttura il suo credo in tre libri, che sono:

  • De mundo (Sul mondo): opera scientifica che riprende uno scritto pseudo aristotelico dallo stesso titolo;
  • De Platone et eius dogmate (Platone e la sua dottrina): sintetizza la filosofia del pensatore greco (non ci è pervenuto il terzo ed ultimo libro);
  • De deo Socratis (Il demone di Socrate): in cui illustra, partendo dal Teeto di Platone, la voce interiore e capace di consigliare Socrate nei momenti della sua vita. Tale voce Apuleio l’identifica con un demone, un “entità” tra dio e uomo, tra razionalità e passione, capace di portare le nostre istanze al mondo superiore.

Il mago

Essere mago nel II sec. d.C. voleva dire essere lo stesso che filosofo e medico, tanto le tre discipline non possedevano un così netto distacco l’una dall’altra. D’altra parte, attraverso le sue opere, soprattutto l’orazione e il romanzo, fanno di tutto per non smentire che Apuleio facesse pratica di magia: l’importante per lui è in qualche modo scrollarsi di dosso la fama di “fattucchiere” che il padre e il fratello di Ponziano volevano accreditargli e lo fece con una brillantissima orazione, da noi conservata, che prende nome o di Apologia (discorso in difesa), o più significativamente, De magia. Tramessaci in due libri (lunghezza insolita per un’orazione) si può dividere in tre parti:

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  • Dapprima Apuleio demolisce le accuse e la credibilità dei suoi accusatori. Non manca una captatio benevolentiae attraverso la quale elogia la grande cultura del giudice e quindi la sua grande tollerabilità (sembra voler richiamare qui l’“apertura mentale” di colui che lo deve giudicare che certamente saprà bene che la sua, se magia dov’essere essere, è così ritenuta dagli indotti e malevoli);
  • Nella seconda parte egli fa una distinzione tra magia bianca e magia nera:  per magia nera s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per maledire l’altro a proprio vantaggio; per magia bianca s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per beneficare l’altro a suo vantaggio. Apuleio nel definire le tipologie di magia, sottolinea che la bianca non è altro che la capacità, propria degli iniziati, di entrare in contatto col divino e di operare quindi, per mezzo di lui. Ciò potrà sembrare strano, ma non lo è, perché la cultura ce ne offre innumerevoli esempi, e, nel fare questi esempi, dà enorme sfoggio di erudizione.
  • L’ultima parte dell’orazione è dedicata alla storia vera e propria raccontando gli eventi che lo hanno condotto al matrimonio e termina con un vero e proprio colpo di teatro con cui si mostra l’eredità di Pudentilla e come lei avesse designato il figlio minore ad essere l’erede (quindi l’accusa è completamente infondata).

APÒLOGIA (DE MAGIA)
(91)

Vide quaeso, Maxime, quem tumultum suscitarint, quoniam ego paucos magorum nominatim percensui. Quid faciam tam rudibus, tam barbaris? Doceam rursum haec et multo plura alia nomina in bybliothecis publicis apud clarissimos scriptores me legisse an disputem longe aliud esse notitiam nominum, aliud ar-tis eiusdem communionem nec debere doctrinae instrumentum et eruditionis memoriam pro confessione criminis haberi an, quod multo praestabilius est, tua doctrina, Claudi Maxime, tuaque perfecta eruditione fretus contemnam stultis et impolitis ad haec respondere? 

Vedi, Massimo, quale schiamazzo hanno fatto perché ho enunciato i nomi di alcuni maghi. Come comportarsi con gente così rozza, così barbara? Dovrei loro ancora insegnare che questi nomi e molti altri ancora ho letto nelle pubbliche biblioteche in opere di chiarissimi scrittori, oppure dovrei sostenere che una cosa è conoscere i nomi delle persone, un’altra cosa è praticarne le arti, e che lo studio e la cultura non devono essere considerati come la confessione di una colpa? Oppure non sarà molto meglio che io mi affidi alla tua scienza, Claudio Massimo, e alla tua compiuta erudizione, sdegnando di rispondere a gente sciocca e incivile?

La veemenza con la quale conduce l’oratio, con le sue incalzanti interrogative, mostra come la lezione ciceroniana sia ben stata assimilata da Apuleio. Tuttavia quello che manca in quest’orazione difensiva è proprio l’orazione difensiva: nessuna prova per scagionarsi, ma solo dimostrare l’ignoranza altrui e la propria cultura. Poca differenza quindi tra quest’opera e le declamationes di cui egli era un campione.

Conferenziere

E infatti egli se mago fu, lo fu realmente della parola. Capace di suscitare ammirazione agli ascoltatori, sapeva parlare di tutto e di ogni cosa come ci dimostra anche nelle due opere maggiori. Qualcuno raccolse queste orazioni, scegliendo e facendo un’antologia tra le più ricercate e preziose. Tali opere hanno preso il nome di Florida.

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Edizione del 1927

Il romanziere

Ma l’opera per cui Apuleio è famoso è certamente la Metamorfosi o meglio conosciuta come L’asino d’oro. E’ un testo in 11 libri, il cui antecedente è costituito da un testo greco, non pervenutoci, di Luciano di Samosata del quale ci è giunto un plagio intitolato Lucius o l’asino. Non è improbabile che sia l’autore latino che quello greco abbiano a loro volta rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata Metamorfosi, e attribuito ad un certo Lucio di Patre. Nell’opera di Apuleio il magico si alterna con l’epico, il tragico, il comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico: ciò non toglie, comunque, che tutto il testo sia intessuto di una forte letterarietà.

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Manifesto per una serie di conferenze su L’asino d’oro di Apuleio

L’opera racconta la storia di un giovane chiamato Lucio appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio, avvinto dalla sua insaziabile curiositas, vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotide, che nel frattempo è diventata sua amante, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia per lunghi mesi, trovandosi coinvolto in mille avventure, e sottoponendosi ad infinite angherie. Ciò gli permette di diventare un muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti. Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di Amore e Psiche, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura amorosa di Psiche e di Eros. Avendolo conquistato, ella tuttavia non può svelare il suo volto, ma vita da curiosità lo smarrisce. Lo ritroverà poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli elementi del mondo. Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finché, dopo altre peripezie, si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia e, durante una notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride.

Sia l’ultima parte del romanzo che la celebre favola di Amore e Psiche sembra non abbiano alcun riferimento con le fonti sopra citate, ma siano frutto della fantasia e dell’intenzione di Apuleio, anche perché, come meglio vedremo, la favola costituisce un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone così la corretta interpretazione. Infatti l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, hanno un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici nell’itinerario spirituale del protagonista, che, proprio al termine, sembra coincidere con l’autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorico: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’ultimo libro è certamente la conclusione religiosa; questo ce lo fa pensare sia che l’asino fosse un animale inviso alla dea Iside sia lo stesso numero dei libri, 11, che rimanda al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, dieci per la purificazione e uno dedicato al rito religioso.

Vediamo infatti dapprima descritta la degradazione cui è costretto Lucio:
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Lucio trasformato in Asino

LA TRASFORMAZIONE DI LUCIO IN ASINO

Haec identidem asseverans summa cum trepidatione irrepit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faveret volatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis avide manus immersi et haurito plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in avem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis video solacium, nisiu quod mihi iam nequeunti tenere Photidem natura crescebat.

Dopo avermi così rassicurato con grande trepidazione entrò nella stanza, e tirò fuori un barattolo dal cofanetto. Io lo presi in mano, lo baciai, e poi lo pregai che mi desse la grazia di voli felici; mi spogliai in fretta di tutti i vestiti, immersi le mani avidamente nel barattolo, ne tolsi un bel po’ di unguento e mi spalmai ben bene tutto il corpo. E già tentavo di librare prima un braccio poi l’altro, come un uccello, ma non mi spuntava nessun tipi di piume, e nemmeno penne. I miei peli, invece, diventavano grossi come setole, e la pelle mi diventava dura come il cuoio, e in cima alle mani le dita non erano più superate ma si univano in un unico zoccolo, e dall’estremità della spina dorsale mi venne fuori una gran coda. La mia faccia è enorme, la bocca tutta larga, le narici dilatate, le labbra mi pendono giù: e mi crescono orripilanti orecchie pelose. E non ho nessun conforto in questa mia disgraziata trasformazione se non uno: adesso che non potevo abbracciare la mia Fotide, la verga mi era diventata enorme!

E quindi la sua iniziazione:
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L’iniziazione di Lucio ai culti di Iside

LA TRASFORMAZIONE DA ASINO A LUCIO

At sacerdos, ut reapse cognoscere potui, nocturni commonefactus oraculi miratusque congruentiam mandati muneris, confestim restitit et ultro porrecta dextera ob os ipsum meum coronam exhibuit. Tunc ego trepidans, adsiduo cursu micanti corde, coronam, quae rosis amoenis intexta fulgurabat, avido ore susceptam cupidus promissi devoravi. Nec me fefellit caeleste promissum: protinus mihi delabitur deformis et ferina facies. Ac primo quidem squalens pilus defluit, ac dehinc cutis crassa tenuatur, venter obesus residet, pedum plantae per ungulas in digitos exeunt, manus non iam pedes sunt, sed in erecta porriguntur officia, cervix procera cohibetur, os et caput rutundatur, aures enormes repetunt pristinam parvitatem, dentes saxei redeunt ad humanam minutiem, et, quae me potissimum cruciabat ante, cauda nusquam! Populi mirantur, religiosi venerantur tam evidentem maximi numinis potentiam et consimilem nocturnis imaginibus magnificentiam et facilitatem reformationis claraque et consona voce, caelo manus adtendentes, testantur tam inlustre deae beneficium.

Intanto il sacerdote, messo sull’avviso dal sogno notturno, come potetti da me constatare, e a sua volta colmo di meraviglia per l’esatta corrispondenza tra ciò che stava accadendo e gli avvertimenti divini, subito si fermò e allungando il braccio, egli stesso mi porse la corona proprio davanti alla bocca. Allora tutto trepidante, col cuore che mi batteva forte, smanioso che la promessa s’adempisse, afferrai avidamente quella corona di bellissime rose intrecciate ch’era uno splendore e la divorai. E la celeste promessa non mi deluse. Là per là persi il mio brutto e animalesco aspetto, dapprima cadde l’ispido pelo, poi la grossa pelle si assottigliò, il largo ventre si restrinse, dalle piante dei piedi, attraverso lo zoccolo, spuntarono nuovamente le dita, le braccia non furono più zampe ma, rialzatesi, ripresero le loro funzioni, la testa ritornò eretta, il viso e il capo si arrotondarono, le orecchie da enormi che erano tornarono piccole come prima, i denti, grossi come ciottoli, ripresero dimensioni umane, infine la coda, quella coda che più d’ogni altra cosa era stata la mia ossessione, scomparve. La folla rimase incantata dalla meraviglia i più devoti si prostrarono in adorazione davanti alla potenza così evidente della grande dea, alla grandiosità di quella metamorfosi e anche alla naturalezza con cui s’era compiuta, così simile a un sogno notturno, e a voce alta e in coro, levando al cielo le braccia, testimoniarono lo straordinario miracolo della dea.

I due passi possono considerarsi uno specchio dell’altro e rappresentano, come già detto il punto di partenza e il punto d’arrivo nella trasformazione di un uomo. La curiositas di Lucio, sembra dirci Apuleio, senza che essa sia accompagnata da un più profondo sentire, che non si esaurisca nella ricerca solipsistica di puro piacere (non è senza significato che il primo rimpianto sia sessuale) quale quella di vedere il mondo dall’alto sotto forma di uccello, non può essere esaudita se non accompagnata da un più profondo senso sacrale. Anche questo è sottolineato: a dargli l’unguento è una servetta tutta “sesso”, a rifarlo uomo sarà un sacerdos.

Ciò farebbe delle Metamorfosi, così, un vero e proprio romanzo mistagogico (il cui significato è portare, guidare qualcuno a considerare le realtà sacre, introdurre nelle cose nascoste cioè nei misteri), che sembrerebbe rappresentare l’esperienza stessa dello scrittore. Lo stesso definisce la sua opera fabula milesia, cioè quella narrazione di carattere erotico con un narratore omodiegetico, cioè interno alla stessa (si pensi alla storia, fortemente sessuale di Lucio uomo con Fotide, la serva di Panfila; ma anche al desiderio sessuale che suscita su una nobildonna quando lo scopre, ormai asino, essere pensante come un umano e quindi la volontà di portarlo a teatro per fare l’amore con una condannata a morte). Ma sembra essere molto più in linea con il romanzo ellenistico d’avventure, di cui la storia è piena.

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Antonio Canova: Amore e Psiche

La parte più famosa, e certamente più importante e la favola di Amore e Psiche;
Questo brano può esser letto secondo la morfologia della fiaba dello strutturalista russo Vladimir Propp. Infatti esso è così strutturata:

  • Equilibrio iniziale (inizio): amore tra Psiche e Amore;
  • Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione): gelosia delle sorelle e fuga di Amore
  • Peripezie dell’eroe: ricerca di Amore da parte di Psiche e prove cui sottoposta da Venere;
  • Ristabilimento dell’equilibrio (conclusione): nozze fra Psiche e Amore.

Come detto, la favola di Amore e Psiche, che parte dalla fine del IV libro a buona parte del VI, ha un’importanza fondamentale nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo estetica, ma fornendocene invece la corretta chiave di lettura e di decodificazione dell’intero testo. Infatti, a ben guardare, la successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la curiositas punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità. La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di hybris (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.

C’ERA UNA VOLTA UN RE E UNA REGINA

Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at vero puellae iunioris tam praecipua, tam praeclara pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat. Multi denique civium et advenae copiosi, quos eximii spectaculi rumor studiosa celebritate congregabat, inaccessae formonsitatis admiratione stupidi et admoventes oribus suis dexteram primore digito in erectum pollicem residente eam ut ipsam prorsus deam Venerem religiosis venerabantur adorationibus. Iamque proximas civitates et attiguas regiones fama pervaserat deam, quam caerulum profundum pelagi peperit et ros spumantium fluctuum educavit, iam numinis sui passim tributa venia in medias conversari populi coetibus, vel certe rursum novo caelestium stillarum germine non maria, sed terras Venerem aliam virginali flore praeditam pullulasse.

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William-Adolphe Bouguereau: Psiche (1898)

Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla. Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l’indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere in persona. Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un’altra Venere, anch’essa bellissima, nella sua grazia virginale.

Tale bellezza suscita la gelosia della dea Venere, che non può sopportare che una donna umana possa eguagliarla se non superarla in bellezza:

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Raffaellino del Colle (attribuito): Venere e Cupido,, Loggia Farnese, Roma

LA GELOSIA DI VENERE

“En rerum naturae prisca parens, en elementorum origo initialis, en orbis totius alma Venus, quae cum mortali puella partiario maiestatis honore tractor et nomen meum caelo conditum terrenis sordibus profanatur! Nimirum communi numinis piamento vicariae venerationis incertum sustinebo et imaginem meam circumferet puella moritura. Frustra me pastor ille, cuius iustitiam fidemque magnus comprobavit luppiter, ob eximiam speciem tantis praetulit deabus. Sed non adeo gaudens ista, quaecumque est, meos honores usurpabit: iam faxo eam huius etiam ipsius inlicitae formonsitatis paeniteat”

«Ecco che io, l’antica madre della natura, l’origine prima degli elementi, la Venere che dà vita all’intero universo, sono ridotta a dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà e a veder profanato dalle miserie terrene il mio nome celebrato nei cieli. Nessuna meraviglia, allora, se durante i riti espiatori dovrò sopportare un culto equivoco, diviso a metà e se una fanciulla che non potrà sfuggire alla morte ostenterà le mie sembianze. A nulla è valso allora che quel pastore la cui giustizia e lealtà fu dallo stesso Giove riconosciuta, per la straordinaria bellezza prescelse me fra dee tanto più illustri. Ma non se li godrà a lungo costei, chiunque sia, gli onori che mi usurpa: la farò pentire io della sua bellezza che non le spetta».

A tale scopo chiama suo figlio, Cupido, che, per punire Psiche, deve fare in modo ch’ella si innamori dell’uomo più brutto sulla terra.

Ma Psiche, pur essendo la ragazza più bella sulla terra, non gode della sua fortuna, e rimane sola. Le sorelle si sposano, ma sembra che nessuno voglia lei, e piange, nella sua solitudine, la sua bellezza, maledicendola. Allora il padre si rivolse ad un indovino che gli predisse che un mostro l’avrebbe amata: questo era il volere degli dei. Pertanto la preparasse vestendola d’oro e d’argento, e la portasse sopra una rupe, che, con ferro e con fuoco, l’avrebbe fatta sua. Il padre, pieno di timore, non può fare a meno d’obbedire.

Portata sulla rupe, accompagnata con mesto corteo, viene lasciata sola. Ma viene da subito trasportata dal vento e portata in un locus amoenus:
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Kynuko Y Craft (illustratore): Psiche portata dal vento

LOCUS AMOENUS

Psyche teneris et herbosis locis in ipso toro roscidi graminis suave recubans, tanta mentis perturbatione sedata, dulce conquievit. Iamque sufficienti recreata somno placido resurgit animo. Videt lucum proceris et vastis arboribus consitum, videt fontem vitreo latice perlucidum; medio luci meditullio prope fontis adlapsum domus regia est aedificata non humanis manibus sed divinis artibus.

Psiche dolcemente adagiata su un morbido prato, in un letto di rugiadosa erbetta sentì l’animo suo liberarsi di tutta l’angoscia e placidamente s’addormentò. Dopo aver riposato abbastanza si levò più tranquilla e vide un boschetto fitto di alberi alti e frondosi e una sorgente d’acque cristalline e, proprio in mezzo al bosco, non lontana da quella fonte, vide una reggia, costruita non dalla mano dell’uomo ma per arte divina.

 Quindi viene introdotta in una reggia stupenda, dimora più di un dio che di un uomo. Delle invisibili ancelle la curano, la invitano a godere di tutte le cose che il castello le offriva. Dopo aver riccamente mangiato, presa dalla stanchezza fu presa da dolce sonno, ma proprio allora sentì una presenza al suo fianco, era il suo sposo che dolcemente la possedette, per poi svanire all’alba. Viene stipulato un patto: lei non dovrà mai vedere lo sposo.
Nel frattempo i genitori, preoccupati della sua sorte, mandano le sorelle a cercarla. Così lo sposo la ammonì:
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François Gérard, Cupido e Psiche (1798)

LE AMMONIZIONI DI UN DIO

“Psyche dulcissima et cara uxor, exitiabile tibi periculum minatur fortuna saevior, quod observandum pressiore cautela censeo. Sorores iam tuae mortis opinione turbatae tuumque vestigium requirentes scopulum istum protinus aderunt, quarum si quas forte lamentationes acceperis, neque respondeas immo nec prospicias omnino; ceterum mihi quidem gravissimum dolorem tibi vero summum creabis exitium.” 

«Psiche, mia dolcissima e amata sposa, il destino crudele ti minaccia di un terribile pericolo, per cui ti prego dì essere molto prudente. Le tue sorelle, angosciate dalla notizia della tua morte si sono messe sulle tue tracce e presto verranno a questa rupe; se tu sentissi i loro lamenti, per carità non rispondere, non farti vedere, perché a me daresti un grande dolore ma per te sarebbe addirittura la fine.»

Le sorelle, una volta ritrovatala e vista la reggia in cui Psiche vive, e che nel frattempo è in dolce attesa del figlio di un dio, mosse dall’invidia, le fanno credere, che il marito sia un mostro orrendo:

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Le sorelle di Psiche

L’INVIDIA SI TRASFORMA IN BUGIA

“Tu quidem felix et ipsa tanti mali ignorantia beata sedes incuriosa periculi tui, nos autem, quae pervigili cura rebus tuis excubamus, cladibus tuis misere cruciamur. Pro vero namque comperimus nec te, sociae scilicet doloris casusque tui, celare possumus immanem colubrum multinodis voluminibus serpentem, veneno noxio colla sanguinantem hiantemque ingluvie profunda, tecum noctibus latenter adquiescere. Nunc recordare sortis Pythicae, quae te trucis bestiae nuptiis destinatam esse clamavit. Et multi coloni quique circumsecus venantur et accolae plurimi viderunt eum vespera redeuntem e pastu proximique fluminis vadis innatantem. Nec diu blandis alimoniarum obsequiis te saginaturum omnes adfirmant, sed cum primum praegnationem tuam plenus maturaverit uterus, opimiore fructu praeditam devoraturum. Ad haec iam tua est existimatio, utrum sororibus pro tua cara salute sollicitis adsentiri velis et declinata morte nobiscum secura periculi vivere an saevissimae bestiae sepeliri visceribus.” 

“Beata te che te ne stai tranquilla, ignara di un fatto terribile, incurante del pericolo che ti sovrasta, ma noi che stiamo sveglie la notte, preoccupate del tuo caso, siamo angosciate al pensiero delle tue sciagure. Abbiamo saputo, infatti, con tutta certezza, e non possiamo nascondertelo dato che abbiamo fatto nostre le tue sventure e il tuo dolore, che chi viene a letto con te, di nascosto la notte, è un serpente gigantesco, tutto viscide spire dal collo gonfio d’un sangue velenoso e mortale e dalle fauci enormi spalancate. Ora, ricordati dell’oracolo che ti predisse che avresti sposato un’orribile bestia. Molti contadini, e quelli che vengono a caccia da queste parti, e parecchi abitanti dei dintorni lo hanno visto all’imbrunire tornare dalla pastura e nuotare nelle acque del fiume qui vicino. E tutti dicono che non ti colmerà per molto tempo di tutte queste delizie ma che appena la tua gravidanza si sarà compiuta ti divorerà insieme con il ricco frutto del tuo ventre. Stando così le cose tu devi decidere: o ascoltare le tue sorelle così sollecite della tua vita e, scampando alla morte, vivere con noi fuori di ogni pericolo, oppure finire nelle viscere di un mostro orrendo.”

E la convincono ad ucciderlo:
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Jacopo Zucchi: Amore e Psiche

PSICHE SCOPRE L’IDENTITA’ DELLO SPOSO

Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur. Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere, sed in suo pectore; quod profecto fecisset, nisi ferrum timore tanti flagitii manibus temerariis delapsum evolasset. Iamque lassa, salute defecta, dum saepius divini vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi. Videt capitis aurei genialem caesariem ambrosia temulentam, cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis dei pinnae roscidae micanti flore candicant et quamvis alis quiescentibus extimae plumulae tenellae ac delicatae tremule resultantes inquieta lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela. Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa, sive perfidia pessima sive invidia noxia sive quod tale corpus contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat, evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit. Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit.6366.jpg

Simon Vouet: Amore e Psiche

Allora a Psiche vennero meno le forze e l’animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo dio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l’avrebbe certamente fatto se l’arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio. Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi. Ma mentre l’anima sua innamorata s’abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch’essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall’orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d’olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d’amore, proprio il dio d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d’un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell’infelicissima sposa.

 Psiche scopre che il suo amante segreto è Cupido di Maurice Denis, 1908.jpg

Maurice Denis: Amore e Psiche (1908)

Abbandonata, dapprima cerca d’uccidersi e, dopo essersi vendicata delle sorelle, comincia a vagare senza meta, alla ricerca del suo sposo. Dopo aver chiesto a varie dee, che non possono aiutarla, si rivolge a Venere, madre di Cupido, cui il figlio si era rifugiato, malato d’amore. Ma l’ira della dea è impacabile:

L’IRA DI VENERE

“Tandem” inquit “dignata es socrum tuam salutare? An potius maritum, qui tuo vulnere periclitatur, intervisere venisti? Sed esto secura, iam enim excipiam te ut bonam nurum condecet”; et: “Ubi sunt” inquit “Sollicitudo atque Tristities ancillae meae?” Quibus intro vocatis torquendam tradidit eam. At illae sequentes erile praeceptum Psychen misellam flagellis afflictam et ceteris tormentis excruciatam iterum dominae conspectui reddunt. Tunc rursus sublato risu Venus:””Et ecce” inquit “nobis turgidi ventris sui lenocinio commovet miserationem, unde me praeclara subole aviam beatam scilicet faciat. Felix velo ego quae ipso aetatis meae flore vocabor avia et vilis ancillae filius nepos Veneris audiet. Quanquam inepta ego quae frustra filium dicam; impares enim nuptiae et praeterea in villa sine testibus et patre non consentiente factae legitimae non possunt videri ac per hoc spurius iste nascetur, si tamen partum omnino perferre te patiemur.”luca_giordano_003_psiche_punita_da_venere (1).jpg

 Luca Giordano: Psiche punita da Venere (1702)

“Finalmente” le gridò “ti sei degnata di venire a salutare tua suocera! O forse sei venuta a far visita a tuo marito in pericolo per la ferita che gli hai procurato? Ma sta tranquilla, ti farò l’accoglienza che merita una brava nuora come te,” e soggiunse: “dove sono Angoscia e Tristezza, le mie ancelle?” e fattele entrare ad esse l’affidò perché la torturassero; e quelle, eseguendo a puntino l’ordine della padrona, cominciarono a lavorare di scudiscio sulla povera Psiche e a straziarla con torture di vario genere, poi gliela riportarono davanti. E Venere nuovamente scoppiò a ridere: “Sta a vedere che io adesso debbo commuovermi per quel suo ventre gravido che dovrebbe farmi nonna felice di una prole illustre. Sì, proprio felice: nel fiore degli anni esser chiamata nonna e il figlio di una miserabile schiava passare per nipote di Venere. Ma stupida anch’io a chiamarlo figlio, ché mica è valido il matrimonio fra persone di diversa condizione sociale celebrato, poi, così, in campagna, senza testimoni, senza il consenso del padre; perciò questo che nascerà sarà un bastardo, ammesso pure che io ti lasci portare a termine la gravidanza.”

E quindi la sottopone a prove impossibili: separare un mucchio di semi differenti; procurarsi un fiocco d’oro dalle pelli di certe pecore, feroci verso il genere umano; attingere un’urna d’acqua nello Stige. Psiche, attraverso l’aiuto di creature meravigliose, riesce a portare a termine tutte le prove.

L’ultima è quella di scendere nell’Averno e incontrare Proserpina che le farà dono della sua bellezza. Ma la curiositas spinge Psiche ad osservare dentro il cofanetto che le è stato consegnato e quindi giace come morta nel sonno infernale.

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Giulio Romano: Proserpina offre una pisside con dentro la bellezza, Palazzo Te (Mantova, 1534)

Amore, guarito ed impietositosi di lei, intercede presso il grande Giove. Egli ordina la fine delle traversie di Psiche:

IL MATRIMONIO

“Dei conscripti Musarum albo, adolescentem istum quod manibus meis alumnatus sim profecto scitis omnes. Cuius primae iuventutis caloratos impetus freno quodam coercendos existimavi; sat est cotidianis eum fabulis ob adulteria cunctasque corruptelas infamatum. Tollenda est omnis occasio et luxuria puerilis nuptialibus pedicis alliganda. Puellam elegit et virginitate privavit: teneat, possideat, amplexus Psychen semper suis amoribus perfruatur.” Et ad Venerem conlata facie: “Nec tu,” inquit “filia, quicquam contristere nec prosapiae tantae tuae statuque de matrimonio mortali metuas. Iam faxo nuptias non impares sed legitimas et iure civili congruas”, et ilico per Mercurium arripi Psychen et in caelum perduci iubet. Porrecto ambrosiae poculo: “Sume,” inquit “Psyche, et immortalis esto, nec umquam digredietur a tuo nexu Cupido sed istae vobis erunt perpetuae nuptiae.”

“O dei, iscritti nell’albo delle Muse, voi tutti certamente sapete che questo ragazzo l’ho cresciuto io stesso con le mie mani. Ora però credo sia giunto il momento di mettere un po’ a freno i suoi ardori giovanili; sono troppe ormai le favolette che corrono in giro sui suoi adulteri e su tutte le sudicerie che combina. Occorre eliminare ogni occasione e contenere la sua giovanile lussuria con i vincoli del matrimonio. La ragazza già ce l’ha, l’ha anche sverginata: che se la tenga, ci vada a letto e si goda per sempre Psiche e il suo amore.” E volgendosi a Venere: “E tu, figlia mia, per questo matrimonio con una mortale non te la prendere, non temere per il tuo casato e la tua condizione. Disporrò che queste nozze siano tra eguali, del tutto legittime quindi e conformi al diritto civile” e là per là ordinò che Mercurio andasse a prendere Psiche e la portasse in cielo: “Bevi, Psiche” le disse offrendole una coppa d’ambrosia “e sii immortale; né mai Cupido si scioglierà dal vincolo che lo lega a te e queste saranno per voi nozze eterne.”

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Raffaello Sanzio: Il matrimonio di Amore e Psiche (1517)

Ed infine:

VOLUTTA’

Sic rite Psyche convenit in manum Cupidinis et nascitur illis maturo partu filia, quam Voluptatem nominamus”.

Così Psiche andò sposa a Cupido, secondo giuste nozze e, al tempo esatto, nacque una figlia, che noi chiamiamo Voluttà.

 

DECIMO GIUNIO GIOVENALE

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Il giovane Giovenale

Di Decimo Giunio Giovenale conosciamo poco. Laziale di Aquino, nasce tra il 50 e il 60. Amico di Marziale, sembra condividi con lui la condizione sociale. Lo stesso amico poeta lo annovera tra i clientes. Sembra abbia scritto le sue opere non più giovane, infatti alcuni riferimenti interni ci fanno pensare alla prima età del principato adottivo. Nessun riferimento nella sua opera ad avvenimenti seguenti il 127, data dopo la quale va certamente posta la sua morte.

Egli è l’ultimo rappresentante del genere satirico che aveva visto in Lucilio, Orazio e Persio degni antecedenti. Ma lui lo reinterpreterà alla luce della sua età, in cui non vi era certamente libertà di parola accentuando la critica verso vizi generici che sono, dopo l’autore del periodo neroniano e gli epigrammi di Marziale, quasi diventato topoi letterari.

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Manoscritto

Satire
Le satire di Giovenale sono sedici, divise in cinque libri:

  • dalla I alla V
  • VI
  • dalla VII alla IX
  • dalla X alla XII
  • dalla XIII alla XVI

Non sappiamo se tale divisione sia originale o sia frutto di grammatici posteriori, che, nel VI secolo d.C. curarono il testo di Giovenale.
Al di là della divisione, non è possibile individuare un tema per ciascun libro. Ma è bene partire dalle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere Satire:
Nella prima, dopo aver criticato i declamatores, giustifica il suo essere autore di satire:

E’ SEMPRE LA SOLITA SOLFA
(1, 1-14)

Semper ego auditor tantum? Numquamne reponam
vexatus totiens rauci Theseide Cordi?
Inpune ergo mihi recitaverit ille togatas,
hic elegos? Inpune diem consumpserit ingens
Telephus aut summi plena iam margine libri
scriptus et in tergo necdum finitus Orestes?
Nota magis nulli domus est sua quam mihi lucus
Martis et Aeoliis vicinum rupibus antrum
Vulcani; quid agant venti, quas torqueat umbras
Aeacus, unde alius furtivae devehat aurum
pelliculae, quantas iaculetur Monychus ornos,
Frontonis platani convolsaque marmora clamant
semper et adsiduo ruptae lectore columnae.
Expectes eadem a summo minimoque poëta.

Succube sarò sempre ad ascoltare? Mai replicherò / vessato tutto il tempo dalla Teseide del rauco Cordo? / Impunemente quello potrà recitare queste / togate e queste elegie? Impunemente avrà consumato il giorno / un Telefo che mai finisce e un non ancora concluso Oreste scritto fino / ai margini del ponderoso libro, anche sul retro? / A nessuno più è nota la sua casa che a me il bosco / di Marte e l’antro vicino alle rupi Eolie / di Vulcano; che cosa facciano i venti, quali ombre torturi / Eaco, da dove furtivamente un altro abbia strappato l’oro / del Vello, Monico che scaglia così tanti frassini, / i platani e marmi rovinati di Frontone urlano / sempre e le colonne rotte dall’assiduo lettore. / Aspetti le stesse cose da un grande o da un infimo poeta.

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Altra immagine di Giovenale

Qui Giovenale, sembra riprendere un topos della poesia satirica, che risale sin da Orazio, il rifiuto della poesia alta; nel poeta augusteo tale rifiuto viene risolto con l’excusatio; lo stesso Persio nel suo Coliambo aveva parlato del rifiuto da parte sua di “abbeverarsi” alla fonte del Parnaso; qui è la sua inutilità, da un punto di vista morale, a venir sottolineata; in Giovenale invece a prevalere è l’indignatio, come ci dice nel verso 79: Si natura negat, facit indignatio versum (se manca la natura, l’indignazione fa la poesia)

E’ DIFFICILE NON SCRIVERE SATIRE
(1, 23 -30)

Cum tener uxorem ducat spado, Mevia Tuscum
figat aprum et nuda teneat venabula mamma,
patricios omnis opibus cum provocet unus
quo tondente gravis iuveni mihi barba sonabat,
cum pars Niliacae plebis, cum verna Canopi
Crispinus Tyrias umero revocante lacernas
ventilet aestivum digitis sudantibus aurum
nec sufferre queat maioris pondera gemmae,
difficile est saturam non scrivere.

Quando un effeminato eunuco prende moglie, Mevia un Toscano / cinghiale conficca e con la mammella nuda tiene lo spiedo da caccia, / quando tutti i patrizi sfida in ricchezza uno / con il cui taglio molesto, la barba faceva risuonare a me giovane, / quando una parte della plebe del Nilo, la canaglia di Canopi / Crispino, sulla spalla richiamante il mantello di Tiro (di porpora) / ventilava un gioiello d’oro estivo sulle dita sudate / né poteva sopportare il peso di una gemma più grande, / è difficile non scrivere satira.

L’indignatio di Giovenale nasce dall’esigenza di descrivere il reale così com’è, che a lui sembra permanere anche nel nuovo clima politico dell’impero di Traiano; ma il reale descritto da lui, punta soprattutto il dito verso “una” realtà, a suo parere la più sordida e “malsana”, più che sulla totalità della realtà: altrimenti non riusciremo a capire come, per Plinio il Giovane, tale realtà sia descritta in modo favorevole e positivo, “rinnovata” grazie al nuovo clima culturale basato sulla “libertas”. Ci si potrà soffermare sulle differenze sociali tra la nobilitas di Plinio e il cliens di Giovenale: ma se mai volessimo trovare in lui un difetto è che il suo essere “inferiore” viene additato come se la colpa fosse dei nuovi mores introdotti da tempo immemorabile. Per questo, tuttavia, per non esser colpito dagli strali di chi si sente colpito, rivolgerà lo sguardo nel passato, individuando in esso le “storture” del presente.

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Giovenale riceve la maschera della poesia satirica e l’alloro poetico

La seconda satira si scaglia contro chi nasconde il vizio dietro un’apparente virtù, come per gli omosessuali.  Più riuscita la terza nella quale, colta l’occasione del desiderio espresso dall’amico Umbricio di voler lasciare Roma, si lascia andare ad uno sfogo verso la città, ormai che di Romano ha nulla:

DOVE SONO FINITI I ROMANI?
(III, 60 – 72)

(…) Non possum ferre, Quiriti,
Graecam urbem. Quamvis, Achaei quota portio faecis?
Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non gentilia tympana secum
vexit et ad circum iussas prostare puellas.
Ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra.
Rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirite,
et ceromatico fert niceteria collo.
Hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta,
hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis,
Esquilias dictumque petunt a vimine collem,
viscera magnarum domuum dominique futuri.
 

Non posso sopportare, o Quiriti, / una città greca. Sebbene, gli Achei quanta proporzione della feccia siano? / Ormai da tempo l’Oronte siro si getta nel Tevere / e ha trascinato la lingua, le abitudini, le corde oblique (dell’arpa) / con il flautista e i timpani gentili con sé / e le fanciulle costrette a prostituirsi vicino al circo. / Andate, (voi) ai quali è gradita la lupa (puttana) con un barbaro mantello dipinto. / Quel tuo figlio contadino indossa i sandali, o Quirita, / e porta distintivi di vittoria sul collo spalmato di cera. / Questo dall’alta Sicione, poi questo dall’abbandonata Amidone, / questo da Andro, quello da Samo, questo da Trallibo o Alabanda, / e si dirigono verso l’ Esquilino e il colle chiamato dal vimini, / viscere di grandi case e futuri padroni.

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Roma, saeva urbs (satira III)

Anche in tale piccolo frammento di questa satira sembra che il malessere del poeta e della stessa città vada attribuito all’orientalizzazione avvenuta sin dai tempi degli Scipioni; tale impressione è rafforzata dalla lettura dell’intera satira che si può dire abbia una frattura all’interno di essa: dapprima la descrizione della città come sentina di vizi e malaffare determinato dalla presenza di questi graeculi, la cui presenza esaspera la ricchezza individuale e la presenza delle puttane da loro gestite; dall’altra elogio della campagna e dei piccoli piaceri, dove ancora resiste il mos maiorum; nella quarta satira il soggetto è fortemente sarcastico: si parla di un consilium principis convocato per decidere come preparare un rombo, e nell’ultima satira del I libro, l’accusa della differenza tra un ricco e povero nella scena di un banchetto in cui sono inserite ambedue le figure.

Come precedentemente detto il II libro è interamente occupato dalla VI satira (la più lunga della letteratura latina (661 versi): essa si presenta come una vera e propria requisitoria contro la figura femminile. L’occasione gli è fornita dal desiderio del suo amico Postumo di prender moglie. Ed è proprio all’interno dell’istituzione familiare che Giovenale osserva la sua donna: scappata la Pudicizia, le donne si sono lasciate andare ai piaceri tra i quali quelli sessuali (basti pensare a Messalina che non contenta dei piaceri coniugali, si rifugiava di notte nei bordelli a provare smisurati godimenti), quelli legati ai giochi del circo, al potere che esercitano sui mariti grazie alla loro dote, all’innamoramento verso la cultura e la lingua greca.

LA LETTERATA SACCENTE
(VI, 448 – 456)

Non habeat matrona, tibi quae iuncta recumbit,
dicendi genus, aut curvum sermone rotato
torqueat enthymema, nec historias sciat omnes,
sed quaedam ex libris et non intellegat. Odi
hanc ego quae repetit volvitque Palaemonis artem
servata semper lege et ratione loquendi
ignotosque mihi tenet antiquaria versus
nec curanda viris opicae castigat amicae
verba: soloecismum liceat fecisse marito.
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Gli amanti di Messalina

Non abbia la matrona, che si sdraia a fianco a te, / la caratteristica della parola, o con linguaggio artificioso un tortuoso / entimema* rivolti, né conosca tutta la storia, / ma qualcosa, e non comprenda (tutto) dai libri. Io odio / quella che ripete e illustra l’arte di Palamone* / istruita (in essa) sempre dalla legge e secondo le regole del parlare / reciti versi antichissimi a me sconosciuti / e rimproveri ad una amica ignorante parole non da sottolineare / dagli uomini: sia lecito al marito aver fatto (qualche) errore.

Anche qui torniamo an topos ben presente nella cultura latina: chi non ricorda con quale disprezzo Cicerone disegna Clodia, tra i cui difetti vi era anche la cultura? è certo questa una delle componenti che disturba il “maschio”, per cui la donna deve solo rispettare la casa e il marito. Ma torniamo al vecchio discorso: dov’erano le donne che sacrificavano se stesse per il bene della famiglia e della patria? Ci ritroviamo ancora una volta nella Roma Repubblicana, a dimostrare come le accuse di Giovenale, oltre ad essere anacronistiche, non sono affatto propositive. Il suo odio, infatti, sembra non sia dato dalla condizione storica, quanto da una pura e semplice misoginia. Questa satira si caratterizza anche per essere una “satira tragica”. Ci dice l’autore stesso che nel descrivere la depravazione femminile ha dovuto far riferimento spesso ai miti del passato: ciò può destare qualche perplessità, perché essi sono e vanno inseriti nel genere della tragedia, ma la differenza tra la sua e quella della tragedia sta nel fatto che la seconda si basa sul mito, lui sulla realtà. Ma forse è anche il caso di dire che nella tarda antichità comincia ad intravedersi qualche mescolamento di genere.

La VII satira, che apre il terzo libro, è complementare a tutte quelle dedicate alla povertà dei clientes, che condividono tali ristrettezze con avvocati, maestri, poeti, di contro all’avarizia dei potenti e agli stratosferici guadagni degli atleti.

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Wenceslaus Hollar: Immagine per l’edizione inglese delle Satire di Giovenale 

Da tale satira potremo quasi notare un piccolo cambiamento nell’opera di Giovenale, che tuttavia sembra muoversi tra satire in cui continua a stigmatizzare i comportamenti viziosi degli uomini, come l’VIII in cui si scaglia contro chi deturpa la memoria dei propri antenati con una vita dissoluta, sebbene appaia alla fine lo spiraglio di una virtù capace di attribuire la vera nobiltà; la IX in cui si parla di un cliens che si prostituisce al padrone; la XII contro cui si scaglia contro i cacciatori d’eredità e la XV in cui inveisce contro il cannibalismo (episodio avvenuto in Egitto); nelle altre sembra riprendere alcuni temi “più classici” che si possono richiamare alla satira diatribica, come quello della X in cui cerca di individuare il vero significato della preghiera verso gli dei, non certo quello dell’avarizia; o ancora quello del “giusto mezzo”, individuato nel mezzo di un povero pasto, capace tuttavia di soddisfare i convitati ma soprattutto la XIV dove invita i genitori ad aver rispetto verso i propri figli; egli analizza tale rapporto sotto la lente dell’avarizia.

Particolare la XIII, in cui si racconta della truffa subita da un suo amico che aveva prestato del denaro: la satira sembra una “consolatio” rovesciata, ma dove l’intento satirico si appunta sulla stupidità degli uomini e la XVI giunta talmente frammentaria da essere di difficile interpretazione (l’argomento è il privilegio di cui gode la casta militare).

Non si può terminare un discorso su Giovenale se non si ricordano alcune sue espressioni entrate, per così dire, nel linguaggio ordinario come massime; mens sana in corpore sano, panem et circenses, maxima debetur puero reverentia.

PUBLIO CORNELIO TACITO

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Publio (o Gaio) Cornelio Tacito (ritratto immaginario)

Cenni biografici

Di Cornelio Tacito non conosciamo con precisione né il praenomen (Publio secondo un manoscritto, Gaio, secondo un autore antico) né con precisione la data di nascita (tra il 54-55, così risaliamo secondo la testimonianza di Plinio il Giovane, suo amico) e neppure il luogo di nascita, forse umbra, forse celtica. Certamente iniziò la sua carriera politica sotto Vespasiano per finire sotto Traiano, senza significative interruzioni). Fu probabilmente di famiglia equestre se poté approfondire la sua educazione nella capitale e se, sin da giovane, poté scegliere come moglie la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole comandante militare, grazie al quale iniziò la sua attività che rivestì durante l’intera dinastia dei Flavi. Certo dovette essere un buon oratore se, dopo essersi recato come pretore in Africa, difese le popolazioni in un processo de repetundis contro il proconsole Mario Prisco, insieme a Plinio il Giovane (famoso per il suo Epistolario); sappiamo inoltre che tra l’88 e il 93 si allontanò da Roma (non ne conosciamo il motivo) e che rivestì la carica di consul suffectus (cioè l’ottenimento della carica consolare in caso di dimissioni o morte di un console durante il suo incarico). Ottenne anche la pretura in Asia. Morì intorno al 117.

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Ponte a Nimes (città comprendente quella che un tempo era la Gallia Narborense, cioé l’attuale Provenza nel sud della Francia)

Opere
Le opere di Tacito a noi note sono:

  1. De vita Iulii Agricolae (98);
  2. De origine et situ Germanorum o Germania (98);
  3. Dialogus de oratoribus (di poco successivo al 100);
  4. Historiae (tra il 100 e il 110);
  5. Annales (tra la fine delle Historiae e la morte dell’autore).

 
Dialogus de oratoribus

Cominciamo la nostra analisi con un testo lontano dalla riflessione storica o etnografica, ma che ci riporta subito a Quintiliano, cioè la retorica. E, sebbene l’opera sia più tarda rispetto all’Agricola o alla Germania, risulta così “staccata” dal resto della sua produzione, che alcuni ne hanno messo addirittura in forse l’autenticità o la datazione, collocandola nel periodo giovanile (il manoscritto ci è giunto anonimo, ma a definirne la “paternità” è il suo essere stata tramandata insieme ad altre opere minori). Infatti l’argomento, ma soprattutto lo stile sembrano assai lontani dagli altri di Tacito. Ma se essa appare così diversa probabilmente lo si deve al genere stesso dell’opera che Quintiliano aveva poi canonizzato con uno stile neociceroniano da renderlo quasi “obbligatorio”. L’opera è strutturata come un dialogo, avvenuto nel periodo di Vespaniano, tra i maggiori oratori del tempo, e affronta il tema della decadenza. E’ composto da 42 capitoli e appare evidente come ci sia una lacuna tra il capitolo 35/36. L’io narrante è costituito da un giovane che descrive, non intervenendo, il dialogo dei tre grandi retori.

I protagonisti attribuiscono ognuno una motivazione diversa al declino dell’oratoria:

  1. Vipsano Messala ne indica le cause sul deterioramento dell’educazione (riprendendo la teoria di Quintiliano);
  2. Marco Apro afferma che l’oratoria non è peggiorata, ma è solo cambiata adeguandosi ai tempi;
  3. Curiazio Materno con la fine della libertà che non permette la facoltà di potersi esprimere senza remore.

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Tacito, come mostrato precedentemene, sembra accogliere, nella sua opera, le motivazioni che nell’età imperiale, da Petronio in poi, hanno caratterizzato la decadenza dell’oratoria e accoglie le motivazioni che i suoi predecessori avevano elaborato. Tuttavia sembra che egli debba sottolineare come la realtà a lui contemporanea sia priva di una elegante eloquenza perché manca un confronto ardente fra fazioni politiche opposte, come ai tempi di Cicerone, per poi tuttavia aggiungere  che è meglio la pace imperiale che le guerre civili.

L’ANTICA FIAMMA DELL’ELOQUENZA

Magna eloquentia, sicut flamma, materia alitur et motibus excitatur et urendo clarescit. Eadem ratio in nostra quoque civitate antiquorum eloquentiam provexit. Nam etsi horum quoque temporum oratores ea consecuti sunt, quae composita et quieta et beata re publica tribui fas erat, tamen illa perturbatione ac licentia plura sibi adsequi videbantur, cum mixtis omnibus et moderatore uno carentibus tantum quisque orator saperet, quantum erranti populo persuaderi poterat. Hinc leges adsiduae et populare nomen, hinc contiones magistratuum paene pernoctantium in rostris, hinc accusationes potentium reorum et adsignatae etiam domibus inimicitiae, hinc procerum factiones et adsidua senatus adversus plebem certamina. Quae singula etsi distrahebant rem publicam, exercebant tamen illorum temporum eloquentiam et magnis cumulare praemiis videbantur, quia quanto quisque plus dicendo poterat, tanto facilius honores adsequebatur, tanto magis in ipsis honoribus collegas suos anteibat, tanto plus apud principes gratiae, plus auctoritatis apud patres, plus notitiae ac nominis apud plebem parabat.

La grande eloquenza, come la fiamma, ha bisogno di materia che la alimenti e di movimento che la ravvivi; e nell’ardere acquista splendore. Le medesime cause favorivano anche nella nostra città l’eloquenza degli antichi. Benché infatti certi oratori della nostra epoca abbiano ottenuto tutti i successi che potevano ripromettersi in uno stato ben regolato, tranquillo e felice, tuttavia sembra che maggiori speranze si aprissero agli antichi in mezzo a quei grandiosi rivolgimenti e tumulti, allorché, essendo ogni cosa sconvolta e mancando un unico capo, ciascun oratore tanto più valeva, quanto più riusciva ad influire sulla moltitudine disorientata. Di qui le frequentissime proposte di leggi e la gran popolarità, di qui gli sproloqui dei magistrati, che quasi pernottavano sulla tribuna: di qui le accuse lanciate contro alti personaggi e le inimicizie condivise anche dalle famiglie; di qui le fazioni dei patrizi, di qui le lotte continue tra il senato e la plebe. Tutti questi mali dilaniavano sì lo stato, ma stimolavano l’eloquenza di quei tempi e le offrivano brillanti compensi; perché quanto più un cittadino s’imponeva con la parola, tanto più facilmente giungeva alle cariche pubbliche e nelle cariche stesse oltrepassava i propri colleghi, tanto più maggiore favore si procurava da parte dei potenti, tanta maggiore autorità da parte del senato, tanta maggiore notorietà e fama presso la plebe.

E ciò che dice in questo passo, posto quasi a conclusione dell’opera, affermato da Materno che, in quest’opera è l’alter ego di Tacito.

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Giulio Agricola

De vita et moribus Iulii Agricolae

Dopo la morte di Domiziano, cui segue la parentesi di Nerva, sotto la quale i critici tendono a far coincidere l’inizio della stesura di quest’operetta, e l’elezione di Traiano, a Roma si percepisce una maggiore libertà, se così si può dire, culturale. Per questo Tacito diede alle stampe un libretto il cui compito era quello di esaltare il suocero, grande comandante militare e leale uomo di Stato. Di lui infatti si racconta soprattutto l’impresa della conquista della Britannia cui dedica degli excursus che sembrano esulare dal genere biografico vero e proprio, quindi, la gelosia dei successi del generale, ed il richiamo per volontà del princeps nella Capitale, dove Agricola, per non urtare l’Imperatore, conduce vita ritirata. Rinuncia al proconsolato e la morte lo coglie ad appena cinquantatré anni (qualcuno vocifera per avvelenamento da parte di Domiziano).

L’opera consta di 46 capitoli, in cui si racconta la vita di Giulio Agricola fino al consolato, cui segue la spedizione in Britannia (e qui viene inserito un excursus che ricorda gli excursus cesariani del De Bello Gallico) e quindi il suo ritorno a Roma.

E’ difficile definire il genere di tale monografia: potremo inserirla nel genere della biografia encomiastica, oppure di una vera e propria una vera e propria laudatio funebris in onore del suocero. Infatti quello che lui vuole mettere in evidenza è come, pur sotto un pessimo imperatore, come Domiziano, si ci può comportare in modo corretto e giusto. Egli infatti sembra prendere le distanze da quel periodo in cui il suicidio stoico sembrava essere l’unica forma per salvare la propria libertà e quindi la propria dignità. Nella considerazione che l’impero è ormai una forma ineluttabile del processo storico romano, compito di un buon funzionario è quello di fare in modo che sia proprio questo, cioè l’impero e non il suo rappresentante, l’imperatore, a godere dei frutti dell’uomo onesto:

AGRICOLA DI FRONTE ALL’IMPERATORE
(42)

Proprium humanii ingenii est odisse quem laeseris: Domitiani vero natura praeceps in iram, et quo obscurior, eo inrevocabilior, moderatione tamen prudentiaque Agricolae leniebatur, quia non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat. Sciant quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta sed in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt.

E’ della natura umana odiare chi hai offeso; inoltre la natura di Domiziano, tanto più implacabile quanto più si teneva chiusa in se stessa, era mitigata dalla modestia e dalla prudenza di Agricola, il quale non ricercava la fama né sfidava la morte con l’ostinazione o con la vana fierezza della libertà. Sappiano coloro che ammirano i gesti di ribellione che possono esistere uomini grandi anche sotto principi cattivi e che l’obbedienza e la moderazione, quando è presente l’operosità e l’energia, si elevano a quella gloria dove molti altri per vie pericolose, ma senza utilità per lo stato, salirono illuminati da una morte ambiziosa.

Il passo mostra bene quando detto prima: ma ciò non toglie a noi il dubbio che quanto Tacito dica del suocero, tenda anche a dirlo per lui. Anch’egli, infatti, iniziò attività politica sotto Domiziano e vorrebbe essere “scagionato” dall’averla fatta sotto la tirannia del feroce imperatore.

Ma certamente uno dei passi più famosi di tutta l’opera, di cui riportiamo un frammento è nella definizione dell’imperialismo romano:

DAL DISCORSO DI CALGACO
(30)

Quotiens causas belli et necessitatem nostram intueor, magnus mihi animus est hodiernum diem consensumque vestrum initium libertatis toti Britanniae fore: nam et universi coistis et servitutis expertes, et nullae ultra terrae ac ne mare quidem securum inminente nobis classe Romana. Ita proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam ignavis tutissima sunt. Priores pugnae, quibus adversus Romanos varia fortuna certatum est, spem ac subsidium in nostris manibus habebant, quia nobilissimi totius Britanniae eoque in ipsis penetralibus siti nec ulla servientium litora aspicientes, oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habebamus. Nos terrarum ac libertatis extremos recessus ipse ac sinus famae in hunc diem defendit: nunc terminus Britanniae patet, atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

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Disegno del XIX sec. che illustra il discorso di Calgaco

Ogni volta che esamino le cause della guerra e la nostra critica situazione, ho grande fiducia che il giorno d’oggi e la vostra concordia  saranno l’inizio della libertà per tutta la Britannia; infatti vi siete riuniti tutti insieme voi che siete ignari di schiavitù, e non ci sono terre di là e nemmeno il mare è sicuro, dal momento che la flotta romana incombe su di noi. In tale situazione il combattimento armato, che è onorevole per i valorosi, è nel contempo anche la difesa più sicura per gli imbelli. Le precedenti battaglie, nelle quali si è combattuto contro i Romani con varia sorte, avevano una speranza e una possibilità di aiuto nelle nostri mani, perché noi i più nobili di tutta la Britannia e perciò posti proprio nelle sedi più interne senza vedere alcun lido di coloro che sono asserviti, avevamo persino gli occhi non contaminati dal contatto dell’asservimento. Lo stesso nostro isolamento e l’oscurità del nostro nome ci hanno difero fino a oggi, noi i più lontani abitanti della terra e ultimi rappresentanti della libertà; ora l’estremo confine della Bretagna è aperto e tutto ciò che è ignoto passa per prodigioso: ma ormai al di là non c’è nessun altro popolo, non c’è nulla se non flutti e scogli, ma più pericolosi i Romani, alla cui tracotanza invano si potrebbe sfuggire con l’ossequio e la sottomissione. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che devastano ogni cosa sono venute a mancare le terre, scrutano anche il mare: se il nemico è ricco, sono avidi di denaro, se poveri, prepotenti, tali che né l’Oriente, né l’Occidente potrebbe saziare: loro soli con pari desiderio bramano le ricchezze e l’indigenza di tutti. Depredare, massacrare, rapinare essi lo chiamano con falso nome impero, e, quando fanno il deserto, lo chiamano pace.

E’ giusto ricordare che sin dalla storiografia greca, come Tucidite e Senofonte, si era soliti riportare i discorsi dei generali rivolti alle proprie truppe. Se per quelli dei militari appartenenti alla cultura “vincente” si esalta l’eroismo ed il patriottismo, per gli avversari l’estrema forza e attaccamento ai soldati e alle terre. Non si sottolinea il coraggio dell’avversario a caso, esso è utile a rafforzare la forza vincente: più il nemico ha valore più la vittoria sarà gloriosa. Lo stesso per il discorso di Calgaco ai suoi uomini. Allora perché esso è diventato più importante? Perché la capacità “icastica” tacitiana è diventata proverbiale: quello che dice il britanno ai Romani è quello che si può dire di qualsiasi imperialismo e del suo modo di giustificarsi. codex-aesinas.jpg

Codice con la fine dell’Agricola e l’inizio della Germania

E’ questa la prima opera di Tacito, quella in cui il grande futuro storico, cerca un proprio modo di porre la materia. Tacito non è mai esente dall’imparare dai modelli di cui interpreta lo stile e la struttura (abbiamo visto come gli excursus nascano da Cesare). Il modello stilistico per il De vita et de moribus Iulii Agricolae è certamente quello di Sallustio (su cui modella il discorso di Calgaco): uso di arcaismi, ellissi verbali ed infiniti storici.

Altrettanto importante è il passo dedicato alla morte del generale Agricola:

Finis vitae eius nobis luctuosus, amicis tristis, extraneis etiam ignotisque non sine cura fuit; vulgus quoque et hic aliud agens populus et ventitavere ad domum et per fora et circulos locuti sunt; nec quisquam audita morte Agricolae aut laetatus est aut statim oblitus. Augebat miserationem constans rumor veneno interceptum; nobis nihil comperti, ut adfirmare ausim. Ceterum per omnem valetudinem eius crebrius quam ex more principatus per nuntios visentis et libertorum primi et medicorum intimi venere, sive cura illud sive inquisitio erat. Supremo quidem die momenta ipsa deficientis per dispositos cursores nuntiata constabat, nullo credente sic adcelerari quae tristis audiret. Speciem tamen doloris animi vultu prae se tulit, securus iam odii et qui facilius dissimularet gaudium quam metum. Satis constabat lecto testamento Agricolae, quo coheredem optimae uxori et piissimae filiae Domitianum scripsit, laetatum eum velut honore iudicioque. Tam caeca et corrupta mens adsiduis adulationibus erat, ut nesciret a bono patre non scribi heredem nisi malum principem.

La fine della sua vita fu luttuosa per noi, triste per gli amici, anche per estranei e sconosciuti non senza rammarico; anche la folla e questo popolo che si occupa di altro vennero continuamente alla sua casa e ne parlarono nelle piazze e nei crocchi; e nessuno, sentita la morte di Agricola, si rallegrò o se ne dimenticò subito. Accresceva la commiserazione la diceria insistente che fosse stato ucciso con il veleno; nulla di accertato da parte mia per osare affermarlo. Peraltro, per tutta la sua malattia, più frequentemente della consuetudine imperiale di far visita per mezzo di messaggeri, vennero i principali liberti e i medici più fidati, sia che quello fosse preoccupazione o controllo. Certo, nell’ultimo giorno, risultava che i momenti stessi della sua agonia vennero riferiti da apposite staffette, mentre nessuno credeva che si accelerassero così cose da udire con tristezza. Tuttavia ostentò sul volto l’apparenza del dolore dell’animo, ormai tranquillizzato nel suo odio e per dissimulare più facilmente la gioia che la paura. Risultava a sufficienza che, letto il testamento di Agricola, in cui nominò Domiziano coerede insieme all’ottima moglie e alla devotissima figlia, egli si rallegrò come prova d’onore e di stima. Tanto cieca e corrotta era la sua mente dalle continue adulazioni da ignorare che da un buon padre non si può nominare erede se non un pessimo imperatore.

Siamo nella parte finale del libello: Tacito con un racconto secco ed essenziale non ci dice che il suocero fosse stato ucciso dall’Imperatore, ma lo suggerisce, sottolineando l’arrivo di medici, liberti di Domiziano, per accertarsi della sua fine. Può sorprendere che Agricola abbia lasciato parte del suo patrimonio all’Imperatore, ma era pratica comune per i Romani ricchi, affinché, con una scusa qualsiasi, non ne venissero privati da qualsiasi accusa mossa loro.

De origine et situ Germanorum

Contemporaneo all’Agricola è il De origine et situ Germanorum o più semplicemente Germania, piccolo libro composto da 42 capitoli, che viene considerato come il primo esempio di un’opera interamente etnografica a noi giunta. Certo non mancano esempi di scrittura etnografica negli excursus, come ad esempio nel De bello gallico di Cesare o nelle Historiae, a noi non giunte, di Sallustio. Ma tali esempi sono vere e proprie digressioni all’interno di opere altre, come quelle storiche. Tacito, invece, scrive un’opera che ha quell’impostazione, richiamandosi, molto probabilmente a testi simili di Seneca sull’India e sull’Egitto. Più che riportare in modo diretto il luogo che si accinge a descrivere, Tacito si serve di fonti letterarie, che riprende e abbellisce in modo stilistico. Tale riferimento è già chiaro nell’incipit:

I CONFINI DELLA GERMANIA
(I)

Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus quos bellum aperuit. Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac precipiti vertice ortus, modico flexu in occidentem versus septentrionali Oceano miscetur. Danuvius molli et clementer edito montis Abnobae iugo effusus, plures populos adit, donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat; septimum os paludibus hauritur.

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La Germania ai tempi di Tacito

La Germania, nel suo complesso è separata dai Galli, dai Reti e dai Pannoni dai fiumi Reno e Danubio, dai Sarmati e dai Daci dalla reciproca paura o dai monti: l’Oceano circonda le altre parti, abbracciando vaste penisole ed immensi spazi delle isole, di cui da non molto conosciuti genti o re, che la guerra ha svelato. Il Reno, nato dalla cima inaccessibile e precipitosa delle Alpi Retiche, volto verso occidente con una leggera curvatura, si mescola al mare del nord. Il Danubio, nato da una lieve cima di dolce pendio del monte Abnoba, tocca più popoli, finché erompe nel mare del Ponto per sei canali, il settimo si consuma nelle paludi.

In esso lo stile e i termini richiamano fortemente l’incipit cesariano (si pensi al Gallia est omnis…). Ma qual è il fine di quest’opera? Si è sempre creduto che egli volesse sottolineare la fortezza e l’integrità, seppur non civilizzata, delle popolazioni germaniche, di fronte alla decadenza dei costumi della ricca e troppo civile società romana.

FIEREZZA E PUREZZA DEI GERMANI
(IV)

Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem exstitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida: laboris atque operum non eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo solove adsueverunt.

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Immagine di un guerriero germanico

Personalmente inclino verso l’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da nessun incrocio con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d’intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all’assalto. Non altrettanta è la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo.

Infatti, in questo breve passo, Tacito sembra mettere in rilievo due aspetti fondamentali:

  • La purezza della razza;
  • La forza determinata dalle avverse condizioni geografiche.

Per quanto riguarda il primo aspetto è chiara l’intenzione tacitiana di mettere in rilievo come l’essere “non contaminati” rappresenti un elemento capace di dar loro coesione valoriale e quindi forza nella loro determinazione di riaffermare le proprie esigenze, dall’altra la ripresa del topos storiografico di mettere in relazione corpo-ambiente, che qui egli utilizza per ribadire la purezza della razza germanica.

Ma quello che maggiormente emerge è che, dietro lo sguardo etnografico, si nasconda quello politico: egli è ben consapevole che un allargamento dell’Impero potesse avvenire solamente da quella parte e non nel ben più pericoloso Oriente. Tuttavia si rende anche conto della necessità di prevenire spedizioni da parte di loro (infatti Traiano aveva già lì spostato le sue truppe), perché alla loro rozzezza, ma che si potrebbe anche intendere come forza incontaminata, Roma, con l’andar del tempo non saprebbe più rispondere.

Edizione del 1658

I capolavori di Tacito sono tuttavia rappresentati dai due libri storici: Historiae ed Annales. Non ci sono giunti integri, pertanto vi è una ricca discussione critica riguardo l’ipotesi della loro lunghezza che, secondo la testimonianza rilasciataci da San Gerolamo, fosse di trenta libri; inoltre la trasmissione manoscritta ci ha trasmetto insieme le due opere secondo una versione cronologica capovolgendone la composizione. Infine, considerando per buona la testimonianza del religioso, si è ipotizzato che le due opere fossero le Historiae di 12 e gli Annales di 18 libri.

Historiae

Le Historiae costituiscono il primo grande capolavoro tacitiano. Il testo ci è giunto mutilo, possediamo soltanto i primi quattro libri e 26 capitoli del V. Non sappiamo quanto potesse essere lunga: ipotizziamo, sulla base della tradizione manoscritta 14 o 12 libri. Tali ipotesi può essere avvalorata dal fatto che San Gerolamo ci parla di un unico testo in trenta libri in cui gli Annales (che raccontava episodi precedenti) precedevano le Historiae. Cominciando quest’ultimo al capitolo sedicesimo si è giunti all’ipotesi su formulata.

L’opera, che venne strutturata seguendo la tradizione annalistica (anno per anno), doveva raccontarci gli avvenimenti successi a Roma dal 69, anno della lotta fra i quattro imperatori ed il 96, anno della morte di Domiziano. Vediamone la struttura:

Il I libro si apre con il breve regno di Galba. In esso troviamo il Proemio in cui Tacito vuole anche raccontarci come egli abbia iniziato la sua attività politica:
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Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano

NEQUE AMORE SINE ODIO
(I)

Mihi Galba Otho Vitellius nec beneficio nec iniuria cogniti. Dignitatem nostram a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam non abnuerim: sed incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est. Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti seposui, rara temporum felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet.

Quanto a me non ho conosciuto né Galba, né Otone, né Vitellio, quindi né benefici, né amore. La mia carriera politica ha avuto inizio con Vespasiano, si è svolta con Tito, ha raggiunto il suo vertice (né io lo nego) con Domiziano: ma chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ognuno deve parlare senza amore e senza odio. Alla mia vecchiaia riservo, se la vita mi basterà, la storia del principato del divo Nerva e di Traiano: più ricco tema, e men periglioso a trattarsi per la singolare felicità del tempo presente in cui è dato pensare come piace e dire ciò che si pensa.

E’ l’ultima parte del Proemio che è stata qui riportata, che ci offre il destro per cogliere da una parte elementi, seppur indiretti della sua biografia, iniziata nell’età flaviana, l’avvio della sua attività sotto il principato adottivo, ma soprattutto il fatto, poi negato, di continuare la storia con il racconto del periodo di Nerva e Traiano. Assistiamo qui al duplice tentativo sia di giustificare se stesso sia di rivendicare l’oggettività con la quale vuole descrivere la storia. Se per la prima basta riandare a ciò che nell’Agricola ha detto del suocero, ben più difficile spiegare la seconda, dove l’oggettività a volte è piegata a giudizi non proprio positivi sugli imperatori, incapaci nel difficile compito di guidare l’impero.

In seguito ci viene raccontata la sua fine da parte di Otone e la sua proclamazione. Nel II assistiamo all’acclamazione da parte di Vitellio delle sue truppe, mentre Vespasiano e Tito si trovano in Giudea per domare la rivolta ebraica. Vi è la guerra aperta tra Vitellio e Otone. Quest’ultimo, sconfitto a Cremona, si toglie la vita. Il vincitore, quindi si dirige a Roma. Nel III assistiamo alla morte di Vitellio trucidato a Roma, mentre il IV vedrà infine l’arrivo nelle capitale di Vespasiano.

L’ultimo che possediamo, il V, si soffermerà invece su suo figlio, Tito. Alla narrazione della sua preparazione bellica, farà seguito una digressione sugli Ebrei.

Il modo attraverso cui Tacito sembra avvicinarsi a tale periodo sembra rispondere all’esigenza di cogliere, in un passato così recente, l’errore che ha portato dapprima Roma nel caos (l’anno dei quattro imperatori) e come, nel periodo successivo, quello di Nerva, ciò sia stato evitato:

GALBA A PISONE
(I, 16 – 1)

Si immensum imperii corpus stare ac librari sine rectore posset, dignus eram a quo res publica inciperet: nunc eo necessitatis iam pridem ventum est, ut nec mea senectus conferre plus populo Romano possit quam bonum successorem, nec tua plus iuventa quam bonum principem. Sub Tiberio et Gaio et Claudio unius familiae quasi hereditas fuimus: loco libertatis erit quod eligi coepimus; et finita Iuliorum Claudiorumque domo optimum quemque adoptio inveniet.

Se l’immensa mole dell’impero potesse reggersi e bilanciarsi senza una guida, sarei degno di ridare inizio alla repubblica; ma la realtà, e non da oggi, è così compromessa che la mia vecchiaia altro non può dare al popolo romano che un buon successore, e non altro la tua giovinezza se non un buon principe. Sotto Tiberio, Gaio, Claudio noi Romani siamo stati, per così dire, proprietà ereditaria di una sola famiglia: sostituisca in qualche modo la libertà l’applicazione che noi facciamo del principio della libera scelta, sicché, finita la casa Giulia e Claudia toccherà all’adozione scegliere il più degno.

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Moneta romana raffigurante Galba

Infatti il regno di Nerva, senatore eletto a Roma dopo l’uccisione di Diomiziano era stato scevro dai pericoli di successione proprio perché aveva adottato come successore Traiano (non per niente la loro età prende il nome di Principato adottivo). Ma allora perché Galba non era riuscito, pur avendo adottato Pisone? Perché Galba era stato voluto da una minoranza aristocratica, non aveva sostegni che potessero puntellarlo:

et omnium consensu capax imperii nisi imperasset
secondo l’opinione di tutti degno dell’impero, se non avesse governato

Ma perché Tacito è così sferzante nei suoi confronti? Proprio perché Galba vuole mettere d’accordo ciò che non esiste più: egli vorrebbe essere ancora il garante del mos maiorum; ma questo è in contraddizione con l’impero. Non si può infatti adottare un buon uomo, ligio al dovere, integerrimo moralmente, ma inviso alle truppe e alla gente. Ben altra tempra aveva Nerva, e ben altre capacità politiche, se aveva ottenuto per Roma un periodo di pace e, adottando Traiano, aveva scelto un princeps capace e amato da tutti.

E’ nel IV che troviamo la giustificazione dell’impero, attraverso le parole di Petilio Ceriale, comandante di un grosso esercito di otto legioni, mandato da Vespasiano per sedare delle rivolte sorte nel territorio gallico. Tacito riporta il suo discorso rivolto ai capi gallici:

IL DISCORSO DI PETILIO CERIALE

Terram vestram ceterorumque Gallorum ingressi sunt duces imperatoresque Romani nulla cupidine, sed maioribus vestris invocantibus, quos discordiae usque ad exitium fatigabant, et acciti auxilio Germani sociis pariter atque hostibus servitutem imposuerant. Quot proeliis adversus Cimbros Teutonosque, quantis exercituum nostrorum laboribus quove eventu Germanica bella tractaverimus, satis clarum. Nec ideo Rhenum insedimus ut Italiam tueremur, sed ne quis alius Ariovistus regno Galliarum potiretur. An vos cariores Civili Batavisque et transrhenanis gentibus creditis quam maioribus eorum patres avique vestri fuerunt? Eadem semper causa Germanis transcendendi in Gallias, libido atque avaritia et mutandae sedis amor, ut relictis paludibus et solitudinibus suis fecundissimum hoc solum vosque ipsos possiderent: ceterum libertas et speciosa nomina praetexuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet.

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Antonio Tempesta: Petilio Cerviale incontra i Bavari (1612)

Gli ufficiali e e i generali romani non sono entrati nella vostra terra o in quella degli altri Galli, per un loro desiderio personale, ma perché invocati dai vostri antenati, che le discordie continue avevano spinto all’estremo, e perché i Germani, da loro chiamati in aiuto, avevano imposto la stessa schaivitù agli alleati ed ai nemici. E’ ben noto quante volte abbiamo dovuto affrontare i Cimbri e Teutoni, e con quante fatiche per i nostri eserciti e con che succedersi di avvenimenti abbiamo condotto a termine le guerre in Germania. Non ci siamo stanziati nel Reno per difendere l’Italia, ma per impedire che un altro Ariovisto si impadronisca nel regno delle Gallie. Credete forse di essere più cari a Civile, ai Batavi ed alle genti Transrenane, di quanto i vostri padri lo furono ai loro antenati? I Germani hanno sempre le stesse ragioni per invadere le Gallie: un impulso irrazionale o l’avidità e il desiderio di cambiare sede e di impadronirsi di queste terre fertilissime e delle vostre persone, abbandonando le loro paludi e le loro terre inabitabili. E’ vero che, da parte loro, mettono avanti il discorso della libertà ad altre belle parole, ma non ci fu mai nessuno che, desideroso di ridurre gli altri in schiavitù e di imporre il il proprio dominio, non abbia abusato di questi termini.

Ci dice Tacito che è l’avidità che muove la storia, avidità che spinge qualsiasi popolazione o loro comandante a soggiogare gli altri e ciò avviene per un semplice motivo: nam neque quies gentium sine armis neque arma sine stipendiis neque stipendia sine tributis haberi queunt; cetera in communi sita sunt (I popoli, infatti, non possono vivere sicuri senza le armi, e non vi sono armi senza spese, e non si può far fronte alle spese senza tributi. Tutto il resto lo abbiamo in comune). Al di là di un discorso fatto da un generale romano che chiede alle popolazioni galliche di far fronte comune contro le possibili incursioni delle popolazioni germaniche, quello che qui interessa è la stringente capacità tacitiana di dare una legge politica attraverso un parallelismo sintattico che si conclude poi con la sentenza finale che dovrebbe convincere loro.

Ma l’opera, oltre che per questi motivi politici, conserva una fortissima dignità letteraria determinata da una ripresa, con grande capacità, dell’arte sallustiana del ritratto, e, per quella parte che ci è rimasta per la descrizione magistrale delle folle, sia esse in battaglia, sia in trepida attesa per un evento.

Annales

Terminate le Historiae. Tacito non rispettò l’impegno di scrivere dell’età sua, ma si rivolse ancora più indietro e, ricollegandosi a Livio, sembra volesse riprendere il filo da lui tessuto, iniziando la sua opera Ab excessu divi Augusti (Dalla morte del divino Augusto), richiamandosi, così, in modo esplicito all’Ab Urbe condita liviano. Di quest’opera, tuttavia, ci rimangono i primi quattro libri, più un esiguo frammento del quinto e, non integro, il sesto. Poi ci sono giunti l’XI (solo 38 capitoli) ed interi dal XII al XVI. Vediamone la struttura:

I libri I-IV, il frammento del V e parte del VI contengono, dopo un breve riassunto dell’impero augusteo, l’età di Tiberio. Gli ultimi, dall’XI e il XVI gli anni riguardanti Claudio e Nerone; da come si intuisce manca forse la parte più interessante che la penna di Tacito avesse vergato, quella riferita al folle Catilina, il cui ritratto forse sarebbe stato interessantissimo sia sul piano letterario che storico.

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L’inizio dell’opera in un manoscritto

INTRODUZIONE

Urbem Romam a principio reges habere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. Dictaturae ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. Non Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit. Sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrentur. Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res, florentibus ipsis, ob metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. Inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas procul habeo.

I re tennero per primi il governo di Roma. Lucio Bruto fondò il regime di li-bertà e il consolato. La dittatura era temporanea: il potere dei decemviri non durava oltre un biennio, né fu a lungo in vigore il potere consolare dei tribuni militari. Né la tirannia di Silla né quella di Cinna durarono a lungo; la potenza di Pompeo e quella di Crasso in breve si raccolsero nelle mani di Cesare, e gli eserciti di Lepido e di Antonio passarono ad Augusto, il quale ridusse sotto il suo dominio col nome di principe lo Stato stanco e disfatto dalle lotte civili. Ora le fortune o le avversità del popolo Romano antico furono narrate da storici illustri, e chiari ingegni non mancarono di descrivere l’età di Augusto, fin che ne furono distolti dalla sempre crescente necessità di adulare. Le imprese di Tiberio, di Caio, di Claudio e di Nerone furono raccontate falsamente, per paura mentre essi regnavano, per influssi di odi ancor vivi dopo che furono morti. Di qui il mio disegno di riferire pochi fatti intorno ad Augusto e precisamente gli ultimi della sua vita; subito dopo mi propongo di narrare la dominazione di Tiberio e le vicende che ne seguirono, senza avversione né simpatia, essendo lontane da me le cause dell’una e dell’altra.

La lettura di questo passo ci offre una visione che, secondo l’autore, vuole essere neutra, in quanto, ormai, lontano dalle cause che hanno prodotto i “fatti” avvenuti nell’età giulio-claudia, può guardare ad essi sine ira et studio (senza rabbia né approvazione). Eppure, a voler osservare con maggiore attenzione, attraverso un sapientissimo climax l’autore sembra condurci verso il baratro del dispotismo.

Tale dispotismo sembra incarnarsi proprio nel primo successore di Augusto, Tiberio, verso cui il servilismo del senato, nonché la doppiezza dello stesso, ruotano verso un abisso storico cui Tacito guarda:

TIBERIO E IL SENATO
(I, 11)

Versae inde ad Tiberium preces. Et ille varie disserebat de magnitudine imperii sua modestia. Solam divi Augusti mentem tantae molis capacem: se in partem curarum ab illo vocatum experiendo didicisse quam arduum, quam subiectum fortunae regendi cuncta onus. Proinde in civitate tot inlustribus viris subnixa non ad unum omnia deferrent: plures facilius munia rei publicae sociatis laboribus exsecuturos. Plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat; Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura sive adsuetudine, suspensa semper et obscura verba: tunc vero nitenti ut sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur. At patres, quibus unus metus si intellegere viderentur, in questus lacrimas vota effundi; ad deos, ad effigiem Augusti, ad genua ipsius manus tendere, cum proferri libellum recitarique iussit.

Furono dunque rivolte delle preghiere a Tiberio. Ed egli, passando da un discorso all’altro, discuteva di quanto l’impero fosse vasto e della sua modestia. Solo la mente del divo Augusto poteva sopportare un peso così grande: egli aveva imparato, nello sperimentare una parte delle preoccupazioni dopo essere stato nominato da lui, quanto fosse gravoso e quanto soggetto al caso tutto il peso del governare. Quindi, in una città ricca di così tanti uomini illustri, non conferissero tutti i poteri ad una persona: un gruppo di più persone, facendo fronte comune, avrebbe ricoperto con più facilità le cariche statali. In un discorso del genere prevaleva la dignità più che la convinzione; e Tiberio usava – per sua natura o che vi fosse abituato – anche quando si trattava di discorsi che non voleva tenere nascosti, parole sempre oscure ed indecise: allora più si sforzava di nascondere nel profondo dell’animo i suoi pensieri, e più le sue parole si contorcevano nell’incertezza e nell’ambiguità. Ma i senatori, la cui unica preoccupazione era far finta di aver capito, proruppero in gemiti, lacrime e preghiere. Tendevano le mani agli dei, all’effigie di Augusto, alle sue ginocchia, quand’ecco che egli ordinò che si portasse e si leggesse il libello.

Vediamo già da subito come per Tacito il problema sia politico e riguarda il rapporto tra senato e imperatore: ambedue appaiono nel loro disfacimento: il senato è infatti disegnato sotto l’egida del più bieco servilismo, ma il vero capolavoro è il ritratto di Tiberio giocato tutto sulla doppiezza, sul suo predicare e sul suo pensare nascostamente, come fossero degli a parte teatrali, dando tragicità, certamente negativa al personaggio.

Ma tale giudizio negativo viene esacerbato con l’avvento di Nerone. I libri XIII fino al XVI, dove l’opera s’interrompe sono dedicati a lui e contengono forse le pagine più famose dello storico: l’incendio di Roma, l’uccisione di Britannico, il matricidio, la repressione con la morte di Seneca e Petronio.

Il processo involutivo dell’imperatore romano, il suo degenerare verso la “pazzia” ha la prima avvisaglia nell’ossessione (accresciuta dal sentimento di gelosia) quando decide di uccidere il fratellastro, Britannico:

LA MORTE DI BRITANNICO
(XIV, 16)

Mos habebatur principum liberos cum ceteris idem aetatis nobilibus sedentes vesci in adspectu propinquorum propria et parciore mensa. Illic epulante Britannico, quia cibos potusque eius delectus ex ministris gustu explorabat, ne omitteretur institutum aut utriusque morte proderetur scelus, talis dolus repertus est. Innoxia adhuc ac praecalida et libata gustu potio traditur Britannico; dein, postquam fervore aspernabatur, frigida in aqua adfunditur venenum, quod ita cunctos eius artus pervasit, ut vox pariter et spiritus [eius] raperentur. Trepidatur a circumsedentibus, diffugiunt imprudentes: at quibus altior intellectus, resistunt defixi et Neronem intuentes. Ille ut erat reclinis et nescio similis, solitum ita ait per comitialem morbum, quo prima ab infantia adflictaretur Britannicus, et redituros paulatim visus sensusque. At Agrippina[e] is pavor, ea consternatio mentis, quamvis vultu premeretur, emicuit, ut perinde ignaram fuisse [quam] Octaviam sororem Britannici constiterit: quippe sibi supremum auxilium ereptum et parricidii exemplum intellegebat. Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes adfectus abscondere didicerat. Ita post breve silentium repetita convivii laetitia.

Era costume che i figli dei principi sedessero a mensa coi coetanei delle famiglie nobili, sotto gli occhi dei genitori ad una tavola separata e imbandita con maggior sobrietà. Qui sedeva Britannico e poiché v’era costume che un servo assaggiasse in precedenza i cibi  e bevande, per non sospendere tale consuetudine e per rivelare la morte di ambedue il delitto, si ricorse ad un trucco. Si fece portare a Britannico una bevanda innocua ma caldissima e già in precedenza assaggiata; avendola egli respinta per l’eccessivo calore, si versò allora in quella insieme con dell’acqua ghiacciata il veleno, che si diffuse per tutte le membra così rapidamente che in uno stesso momento vennero meno a Britannico la parola e la vita. I circostanti furono presi da spavento; coloro che non sapevano nulla si dileguarono, coloro, invece, che vedevano più chiaro rimasero immobili guardando fissi a Nerone.  Questi, standosene sdraiato con l’aria di nulla sapere, andava dicendo che si trattava del solito attacco di epilessia, di cui fin da bambino Britannico soffriva e che a poco a poco i sensi sarebbero tornati. In Agrippina, invece, il terrore e la costernazione si dipinsero con tale violenza sul volto, per quanto ella si sforzasse di dissimularli, che fu chiaro che ella ignorava ogni cosa, quanto Ottavia, sorella di Britannico. Con quel delitto Agrippina si vedeva strappare l’ultima carta nel gioco ed in esso vedeva un presagio del matricidio. Anche Ottavia, per quanto ancora inesperta per l’età, aveva imparato a dissimulare il dolore, l’affettuosa pietà, ogni sentimento dell’animo. Così, interrotta da un breve silenzio, continuò la gioia del convito.

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Giovanni Muzzioli: Il funerale di Britannico (1988)

E’ da una di queste, e sono molte, pagine di Tacito che capiamo la grandezza della scrittura dello storico romano. La descrizione è in primo piano, tavole imbandite separate tra gli adulti e i bambini. L’atto del veneficio, descritto da una consecutiva che sottolinea l’effetto del veleno. Quindi la scena si sposta a coloro che stanno attorno, per restringersi, zumando sui due protagonisti: la “falsa” indifferenza di Nerone ed il terrore di Agrippina per quel figlio che mostra già di essergli indipendente. Certamente tacito non lascia nulla al caso e il lemma parricidium (uccisione di un parens, quindi di un genitore), carica il lettore di attesa, che già sa che una delle più parti più intense sarà, appunto, l’uccisione della madre da parte del figlio.

Ma più famosa, ricca di notazioni “psicologiche”, è certamente il passo che descrive l’uccisione di Agrippina. La vulgata ci dice che Nerone vuole liberarsi della madre per la sua disapprovazione dell’amore del figlio verso Poppea, ma le motivazioni possono essere più politiche, vista l’ingerenza e il ricatto cui lo sottopone. Ma il gesto è pericoloso: Agrippina è ancora potente ed è amata dai militari (sorella di Germanico, fra gli uomini più venerati dai suoi soldati). Ad aiutarlo ci pensa un suo liberto, Aniceto. Il primo fallimento del piano, obbliga Nerone ad affrettare la morte della genitrice, prima che la situazione precipiti:

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Luca Ferrari: Nerone davanti al corpo di Agrippina

LA MORTE DI AGRIPPINA
(XIV, 8)

Interim, vulgato Agrippinae pericolo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. Hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere; questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque, ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec aspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. Anicetus villam statione circumdat, refractaque ianua, obvios servorum abripit, donec ad fores cubicoli veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. Cubicolo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidam: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. Abeunte dehinc ancilla, «Tu quoque me deseris» prolocuta, respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito, centurione classiario, comitatum; ac, si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere: non imperatum parricidium. Circumsistunt lectum percussores, et prior trierarchus fusti caput eius adflixit; iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum, «Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est.

Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall’irruzione dei soldati. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all’intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. Poiché l’ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. I sicari circondarono il letto e il trierarca* per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.
*comandante di una trireme.

La descrizione che fa Tacito avvicina la figura di Agrippina ad una eroina tragica; dapprima ad essere in primo piano è la folla, la cui volubilità è messa in rilievo in modo quasi sarcastico dallo storico latino, dapprima intorno alla madre dell’imperatore e poi in una fuga repentina alla vista dei soldati. L’eroina rimane sola, quando anche l’ancella l’abbandona (ricalca l’espressione riferita a Cesare: Tu quoque) per poi offrire il petto all’assassino; ma muore anche come madre: non può credere che sia stato il figlio ad ordinarne l’uccisione.

Tutto diverso è l’atteggiamento di Nerone:

SENSI DI COLPA DI NERONE
(XIV, 10)

Sed a Caesare perfecto demum scelere magnitudo eius intellecta est. Reliquo noctis modo per silentium defixus, saepius pavore exsurgens et mentis inops lucem opperiebatur tamquam exitium adlaturam. atque eum auctore Burro prima centurionum tribunorumque adulatio ad spem firmavit, prensantium manum gratantiumque, quod discrimen improvisum et matris facinus evasisset. amici dehinc adire templa, et coepto exemplo proxima Campaniae municipia victimis et legationibus laetitiam testari: ipse diversa simulatione maestus et quasi incolumitati suae infensus ac morti parentis inlacrimans. quia tamen non, ut hominum vultus, ita locorum facies mutantur, obversabaturque maris illius et litorum gravis adspectus (et erant qui crederent sonitum tubae collibus circum editis planctusque tumulo matris audiri), Neapolim concessit litterasque ad senatum misit, quarum summa erat repertum cum ferro percussorem Agermum, ex intimis Agrippinae libertis, et luisse eam poenam conscientia, qua[si] scelus paravisset.

Cesare comprese solo a delitto compiuto l’enormità del misfatto. Per il resto della notte, ora sprofondato in un silenzio di pietra, più spesso in preda a soprassalti di paura e fuori di sé, attendeva la luce del giorno, quasi che dovesse portare la sua rovina. Gli ridiede speranza il primo atto di adulazione, quello, suggerito da Burro, dei centurioni e dei tribuni, che gli prendevano le mani e si felicitavano con lui, per essere scampato all’imprevisto pericolo e all’attentato della madre. Gli amici poi corsero ai templi e, sul loro esempio, le città più vicine della Campania manifestavano, con l’offerta di vittime e l’invio di delegazioni, la loro gioia: ed egli, con rovesciata finzione, si presentava afflitto, quasi insofferente della propria salvezza e in pianto per la morte della madre. Ma poiché non muta, come il volto degli uomini, l’aspetto dei luoghi, e poiché lo ossessionava la vista opprimente di quel mare e della spiaggia (e c’era chi credeva che si udisse, sulle alture circostanti, un suono di tromba e lamenti dal luogo in cui era sepolta la madre), si ritirò a Napoli e inviò un messaggio al senato, la cui sostanza era che avevano scoperto, con un’arma, il sicario Agermo, uno dei liberti più vicini ad Agrippina, e che lei, per rimorso, come se avesse preparato il delitto, aveva scontato quella colpa.

L’enormità del gesto pesa come un macigno nell’animo dell’imperatore, che lo sconta con atteggiamenti incoerenti, quasi infantili. A sollevarlo da tale situazione ci pensano gli adulatori e qui riesce, vinta la paura, a mistificare una maggiore tranquillità con il pianto per la madre. l’importante è uscirne indenne ed il modo è quello tipico di ogni tirannia: incolpare un innocente del proprio misfatto, facendo così della madre un’ipotetica assassina del figlio per mano di un sicario, cui lo stesso figlio non poteva a sua volta che punirla per lesa maestà.

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Il rimorso di Nerone dopo l’assassinio di sua madre – J. W. Waterhouse

Sin dal ritratto del primo imperatore fino alla efferatezze dell’ultimo della dinasta Giulio-Claudia, capiamo qual è il fine di quest’opera. Se è vero che egli l’abbia scritta e pubblicata nell’età che vede il passaggio di Traiano ad Adriano, è facile poter cogliere delle analogie con la storia del primo Impero. Infatti Traiano muore l’8 agosto del 117 in Cilicia, La notizia viene data l’11. Pochi giorni per far girare la voce (rumor, cui Tacito assegna tanta importanza) che egli aveva adottato, come successore, Adriano. Pur essendo l’unico suo parente per diritto designabile, sappiamo pure che non provava nessuna stima nei suoi confronti, preferendogli Prisco, a cui l’imperatore sembrava pensare da tempo. A tessere la trama pare vi sia stata Plotina, moglie di Traiano, fortemente legata ad Adriano. Se questa è la storia, non si può vedere, nel rapporto tra Claudio e Agrippina la stessa spinta di quest’ultima per nominare suo figlio Nerone? Ma tale modo d’agire, se fosse vero, non avrebbe influito anche sul pensiero di Tacito riguardo alla assoluta irrilevanza che il Senato, cui spettava il compito anche di consigliare o approvare, aveva avuto nell’elezione e quindi un pessimismo più forte sull’agire dell’uomo e sui suoi spazi di libertà? Tutto questo agisce nell’opera tanto da far apparire gli Annales come una vera e propria “storiografia tragica”. Egli infatti si muove tra personaggi la cui sete di potere li porta necessariamente a vivere in modo tragico. Ma questo non può essere svincolato dalla realtà. La storia di ieri va letta con l’occhio del presente ed ecco allora il paragone tra Tiberio e Domiziano, che, come il primo, nell’ultimo periodo di regno, circondato dal sospetto e dalla paura, aveva incrementato fortemente le uccisioni degli avversari politici per lesa maestà. Ed è proprio quando Tacito descrive personaggi dal fascino sinistro e ambiguo, che dà il meglio di sé. Non per niente la parte meno felice che noi possediamo è quella riguardante Claudio (mancandoci, come si è detto, quella su Caligola), ma torna a giganteggiare quando parla di Nerone. Certo forse non è proprio attendibile sul piano storico (non lo giustifica affatto); ma è proprio nella statura di questo imperatore, un intellettuale malvagio, ellenizzante, a spingerlo per farlo diventare, a sua volta un eroe tragico, circondato da altri grandi attori, tutti della stessa statura, come Messalina o Agrippina, partecipi della grande tragedia della storia.