Raffinata piccola mappa della Sardegna orientata con il nord a sinistra. Tratta dall’opera “Tabularum geographicarum contractorum libri quinque” di P.Bertius stampato ad Amsterdam presso C. Nicolai.
Fino all’Ottocento la storia delle lettere non si configura come parte di una civiltà complessivamente in movimento, ma piuttosto come un pezzo della storia dei privilegiati. Le lettere e i letterati, fino al XIX secolo, sono marginali rispetto all’unica tragica dialettica che caratterizzò a lungo l’Isola: quella tra povertà diffusa e privilegio sempre più arroccato e esclusivo.
Fino a questo periodo, dunque, non si può assumere la letteratura come paradigma unitario della storia sarda.
Rimane, tuttavia, la necessità di superare l’immagine della Sardegna come isola inaccessibile, che spesso prevale nelle analisi e negli studi che riguardano la regione. Questa immagine tende a ignorare, tra le altre cose, il campo delle attività culturali.
Data la sua posizione decentrata e la sua peculiare storia, segnata dall’incontro con diverse culture, è molto difficile integrare la Sardegna in un discorso di storia letteraria rigorosamente italiana.
D’altra parte è impossibile concepire una storia dei sardi e della loro letteratura al di fuori del contesto europeo, per l’indiscutibile intreccio di atti diplomatici e di governo, di guerre e di accordi di pace, di correnti di idee, di generi letterari e di moduli stilistici che ha legato e lega la Sardegna all’Italia, alla Spagna, al bacino del Mediterraneo, all’intera Europa, a dispetto dei luoghi comuni sull’isolamento.
Le lingue in Sardegna
In Sardegna si sono sempre parlate molte lingue.
Prima della romanizzazione:
- greco
- cartaginese
- altre lingue (berbere, mediterranee, di ceppo caucasico)
Dal 234 a.C.:
- il latino dei romani
- il sardo
L’utilizzo del sardo è un problema da tenere presente per comprendere la complessità del discorso sulla letteratura in Sardegna. Questa lingua antichissima, infatti, in apparenza così poco funzionale e poco presente nella tradizione scritta è però sostenuta dal fecondo rapporto di scambio che in Sardegna si è realizzato tra oralità e scrittura e dall’abitudine al confronto con lingue maggiormente diffuse ed espressione di culture dominanti.
Le lingue utilizzate
Queste le lingue utilizzate nell’isola:
- Volgare sardo – soprattutto nelle cancellerie giudicali
- Italiano – dei pisani e dei genovesi
- Catalano – seguito dal castigliano
- Italiano e francese – come lingue di cultura
- Italiano – importato dai piemontesi
- Latino – lingua scritta
Dal latino comune, ossia dal latino parlato e non da quello letterario, noto come latino volgare, derivano il sardo, l’italiano e le altre lingue neolatine o romanze: il portoghese, il castigliano, il catalano, il francese, il provenzale, il franco-provenzale, il ladino e il rumeno.
- Queste lingue si formano in Europa nei regni cosiddetti romano-barbarici nel periodo di tempo compreso tra il 476 d.C., data della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e l’VIII-IX secolo, quando cominciano ad apparire le prime attestazioni scritte dei volgari neo-latini.
- È difficile stabilire il grado di penetrazione della cultura bizantina, la diffusione del greco parlato e l’eventuale presenza e diffusione di un bilinguismo.
- È certo che in Sardegna si parla il greco, che si ‘sovrappone’ al latino, senza soppiantarlo.
- I documenti scritti dell’XI secolo sono in sardo, lingua neolatina.
- Tuttavia il greco, come lingua del potere lascia le sue tracce: una carta, conservata a Marsiglia, è scritta in sardo ma con caratteri greci.
Carta in lingua sarda con caratteri greci conservata a Marsiglia
Eventi storici
- Divisione dell’Impero Romano
- 456-534: breve dominio dei Vandali
- 534-815: dominio bizantino – scorrerie saracene; la Sardegna è una delle province dell’Impero Bizantino nel quale si parlava il greco.
- Intorno alla fine dell’VIII secolo Bisanzio abbandonò progressivamente la Sardegna.
- Nel periodo tra il X e l’XI secolo l’isola fu divisa in zone che, nel tempo, divennero autonome rispetto al potere centrale bizantino e si diedero istituzioni amministrative e politiche proprie: nascevano così i quattro Giudicati di Cagliari, Torres, Arborea e Gallura, indipendenti e con una lingua propria.
La Sardegna dei Giudicati
Caratteristiche dei Giudicati
Si presentano come dei piccoli regni indipendenti, fondati su una modesta economia agraria e commerciale, simili a tante altre realtà istituzionali diffuse nell’Europa del tempo.
- Mostrano un notevole dinamismo sia nelle relazioni interne, sia in quelle esterne.
- Sono in grado di assicurare una vita civile e ordinata alle popolazioni che crebbero di numero e tesero all’inurbamento, convergendo verso quelle città nelle quali si svolgevano i maggiori traffici.
- Hanno una lingua propria.
A partire dall’XI secolo ha inizio l’interesse di Genova (soprattutto a Cagliari e in Gallura) e di Pisa (nel Logudoro e nell’Arborea) per l’isola. Anche la Santa Sede si interessa della Sardegna. Molteplici i contatti e le influenze esterne: famiglie liguri e toscane, viaggiatori, commercianti, ordini religiosi.
I primi documenti in sardo
In ambiente laico le cancellerie giudicali sono le uniche depositarie della scrittura.
Anche le cancellerie, però, si avvalgono dell’operato degli ecclesiastici.
Risalgono all’XI secolo i primi documenti scritti in sardo (o in latino) e redatti in Sardegna. Provengono dalle cancellerie dei Giudicati o dai conventi.
Statuto sassarese del 1316
Le caratteristiche dei primi documenti in sardo sono:
- la precocità e copiosità rispetto alle altre regioni italiane;
- la diffusione generalizzata in tutte le zone dell’isola
- la complessità e la maturità linguistica e stilistica;
- l’alternanza con il latino (utilizzato in particolare per l’esterno).
Molto singolare l’assenza di un’attività poetica che, molto probabilmente, fu indirizzata in prevalenza verso la trasmissione orale. Difficile stabilire se, e in che misura, esistesse una consapevolezza della diversità tra il latino e il volgare.
Libre del regiment, manoscritto in pergamena che contiene i privilegi concessi alla città di Oristano dal 1479 al 1578, Archivio comunale di Oristano
Le legendae e gli officia
Il perdurare di una vitalità della tradizione latina (e della cultura medioevale scritta) in epoca bizantina è testimoniata dalle legendae e dagli officia (vita e tradizione liturgica) dei santi e dei martiri sardi, databili a partire dall’XI secolo. I più importanti tra questi sono:
Sant’Efisio
- Sant’Efisio
- San Lussorio
- Sant’Antioco
- San Giorgio di Suelli
- Gavino, Proto e Gianuario, martiri turritani
Dipinto del XVI secolo raffigurante San Lussorio Martire, dove appare la prima raffigurazione pittorica del costume sardo (Borore)
In Sardegna le prime testimonianze in sardo o in latino risalgono al periodo che va dall’ultimo quarto del secolo XII all’inizio del XII e provengono o dalle cancellerie dei Giudicati o da monasteri e basiliche.
Chiesa di Saccargia (1116)
Nella lingua scritta il volgare sardo e il latino continuano ad alternarsi, mentre esistono testimonianze di una produzione agiografica autoctona intorno ai monasteri.
Questo repertorio documentario in lingua sarda è copioso e precoce, rispetto a quello di altre regioni italiane, e generalizzato, ossia non limitato ad una particolare area dell’Isola.
Sono testi su cui spesso i filologi e i paleografi si sono divisi. In realtà sono autentici, ma complessi.
Le grafie sono anacronistiche rispetto alla data della redazione e sono spesso una sintesi originale, ma inconsapevole, di diversi stili di scrittura (carolina, gotica, onciale e semionciale).
La lingua, invece, è prevalentemente sarda, nelle sue diverse varietà dialettali (logudorese, arborense e campidanese).
Il problema che essi pongono è l’accertamento di quale consapevolezza avessero gli scrivani di produrre in una lingua diversa dal latino e quindi di quale conoscenza avessero del latino. La coscienza di tale diversità sta alla base dell’uso consapevole del volgare rispetto al latino.
Agiografia e cronaca
Umberto Cardia ha definito la Sardegna giudicale come “il più complesso sforzo che i sardi abbiano prodotto, nella loro storia millenaria, per organizzarsi secondo il proprio genio, secondo consuetudini e leggi proprie”.
Fra gli influssi culturali destinati a incidere sul mondo giudicale, particolarmente significativi sono quelli con Pisa e Genova, le città marinare con le quali, dal 1016, era stato avviato un rapporto destinato a durare nel tempo.
Importanti anche quelli derivanti dalla presenza di ordini religiosi quali i Vittorini (di Marsiglia) o i Camaldolesi, che esercitarono non trascurabili effetti anche sulla circolazione dei libri.
Le poche opere di quel tempo giunte fino a noi, a cominciare da quelle di carattere agiografico, confermano l’impressione che l’ambiente in cui vennero composte condividesse le conoscenze letterarie proprie del tempo.
Una certa capacità di elaborazione narrativa traspare anche in opere di carattere cronachistico, quale il Libellus Judicum Turritanorum.
Si tratta di una breve cronaca del XIII secolo dedicata ai Giudici di Torres che narra degli eventi politici e familiari dei diversi regoli succedutisi sul trono turritano dal 1065 circa al 1259, anno in cui morì Adelasia, moglie di Enzo di Hohenstaufen figlio dell’imperatore Federico II.
Ci è pervenuta attraverso una copia del XVII secolo conservata nell’Archivio di Stato di Torino.
L’autore, anonimo, era probabilmente un monaco. Sebbene risulti evidente il punto di vista filo-papale, la cronaca è preziosa per la ricostruzione delle genealogie medievali sarde, per la comprensione del clima politico del tempo e per la ricostruzione del profilo psicologico di alcune figure rilevanti, come Gonario II de Lacon-Gunale che regnò dal 1124-27 al 1154, quando si ritirò a Clairvaux dove morì e dove ancora è venerato come beato.
Gonario II di Torres
È scritto in sardo logudorese, con una patina linguistica castigliana dovuta al lavoro del copista seicentesco. Presenta un’apprezzabile regolarità sintattica.
Eusebio e Lucifero
Sant’Eusebio di Vercelli
Pur non avendo scritto versi né prose, i due vescovi sardi Eusebio e Lucifero possono essere collocati alle origini della letteratura sarda.
Vissuti entrambi nel IV secolo dopo Cristo, viaggiarono a lungo, soprattutto nel vicino Oriente. Combatterono l’eresia ariana e patirono l’esilio per questioni religiose. Morirono nello stesso anno, il 371: Lucifero nella sede cagliaritana; Eusebio, a Vercelli, città della quale era vescovo, per mano degli ariani che lo lapidarono.
Si ricorda Eusebio per le Epistole (d’argomento religioso) composte con passione evangelica.
A lui viene attribuito anche un Trattato sulla Trinità (secondo alcuni composto da san Atanasio) e un Evangelario latino, conservato nella cattedrale di Vercelli.
San Lucifero
Lucifero anch’egli autore di Epistole, ha lasciato numerose opere scritte in latino, in difesa dell’ortodossia e in forte polemica con l’imperatore Costanzo.
Di lui disse Francesco Alziator: “La prosa di Lucifero non si fa mai arte, ma vibra di tanta passione, forza ed umanità da rappresentare nella storia letteraria, e non solo, dell’Isola, il più notevole esempio di fede nelle proprie idee”.
Lucifero traduce in vantaggio quello che potrebbe essere un non piccolo svantaggio: il suo essere pene barbarus lo pone nella condizione di precorrere i tempi, di antivedere ciò che ancora deve arrivare, di non averne paura. Egli si trova all’origine della tradizione letteraria sarda non solo per ragioni cronologiche ma anche perché si è fatto iniziatore di un modus scrittorio che ha accompagnato gli autori sardi fino all’età contemporanea.
I Condaghi
Sebbene non esista una letteratura medioevale in lingua sarda, se si esclude il Libellus iudicum turritanorum, esiste una copiosa produzione documentaria.
La Sardegna ha sempre mantenuto il senso pragmatico della scrittura, quello orientato alla tutela dei patrimoni. Sembrano semmai i monaci nuovi venuti ad adeguarsi alla lingua di questo sistema di testi scritti che riusciva a disci-plinare in modo efficace i rapporti di scambio e di proprietà.
In questo quadro di fortissimo valore pragmatico della scrittura vanno inseriti i Condaghi.
I Condaghi sono registri patrimoniali originariamente (in età bizantina) costituiti da singole schede cucite le une alle altre e arrotolate intorno ad un bastone (chiamato in greco comtacion da cui appunto il termine ‘condaghe’).
In età medievale, alla struttura a rotolo si sostituisce quella a libro che è giunta fino ai nostri giorni.
Tra i Condaghi giunti fino a noi:
- Il Condaghe di S. Pietro di Silki
- I Condaghi di San Nicola di Trullas
- Il Condaghe di S. Maria di Bonarcado
- Il Condaghe di S. Michele di Salvennor
- Il Condaghe di S. Pietro di Sorres
Condaghe di San Pietro di Silki (1065-1180) redatto in sardo
La Sardegna e i trovatori
La Sardegna del periodo giudicale presenta uno scenario politico non dissimile da quello del resto d’Italia. Le famiglie più illustri di Pisa (Donoratico, Visconti) e Genova (Doria) si erano imparentate con le famiglie regnanti sarde, le quali a loro volta, avevano attivato un’intensa politica matrimoniale con altre casate, non solo italiane, ma anche catalane. Tutto questo contribuì a trasformare il panorama geopolitico e linguistico isolano, rendendolo più articolato, non solo limitato alle corti giudicali, ma animato anche da piccole corti signorili.
I trovatori, che percorrevano la penisola italiana andando di corte in corte, registrarono la novità.
Peire de la Cavarana indirizza il sirventese D’un sirventes faire a un sardo designato con il senhal Malgrat de toz, identificabile con il giudice Barisone d’Arborea (1131-1184) che venne incoronato re di Sardegna a Pavia da Federico I Barbarossa il 10 agosto 1164 dietro compenso di quattromila marchi d’argento anticipati da Genova.
Peire Vidal dedica il sirventese Pos ubert ai mon ric tezaur a un Marques de Sardenha / Q’ab joi viu ab sen regna (al Marchese di Sardegna / che vive con gioia e con senno regna) che non può che essere Guglielmo I Salusio IV, giudice di Cagliari e Marchese di Massa (m.1214) del quale un altro trovatore Elias Cairel dice, con intenti tutt’altro che laudativi, que sa valors sembla febre (che il suo valore sembra febbre).
Albertet de Sisteron, verso il 1221, annovera Adelasia di Torres, figlia di Agnese di Massa, nipote del marchese Guglielmo, moglie prima di Ubaldo Visconti e poi di Enzo di Hoensthaufen, tra le donne più celebri e belle citate in En amor trob tanz de mal seignoratges.
Da notare che i trovatori non scrivevano per se stessi, ma affidavano i testi ai giullari perché li divulgassero.
Il sirventese era il genere proprio della propaganda politica, per cui vien difficile pensare che il pubblico signorile sardo non apprezzasse la tradizione trobadorica, né che il pubblico italiano non si sentisse coinvolto nelle vicende isolane.
Sotto il profilo linguistico è questo il periodo in cui l’italiano penetra in profondità in alcune zone dell’Isola. Una buona esemplificazione di quale italiano venisse parlato alla corte dei Doria ci è data da una lettera di Brancaleone Doria ai nobili siciliani in rivolta contro i catalano-aragonesi.
I trovatori ebbero dunque rapporti con le piccole corti sarde e con i loro signori, così come li ebbero con altre corti signorili d’Italia. Di tutto questo sistema di rapporti e di relazioni non resta nulla a livello dei testi scritti della cosiddetta cultura alta.
La poesia popolare
La poesia popolare isolana del periodo si caratterizza per il numero, per la straordinaria complessità dei generi e per la terminologia tecnica che ne designa le forme e i metri.
Dietro questo patrimonio si nota l’impronta della tradizione provenzale e una discendenza dalla letteratura trobadorica.
Infine va rilevato che, unitamente a quanto attesterebbero le forme e i nomi della poesia popolare sarda, una fonte quattro-cinquecentesca, la Memoria de las cosas que han acontecido en algunas partes del Reyno de Cerdeña, recentemente rivisitata, attesta inequivocabilmente che nell’Isola è esistita una tradizione, se si vuole para-letteraria, che aveva come argomento le origini delle casate giudicali, le fondazioni di chiese e di città nonché alcuni episodi della storia medievale isolana. Verità e mito si fondono in questo testo né più né meno di come si amalgamano in analoghi testi europei.
La Carta de Logu
Durante il giudicato d’Arborea, tanto sotto il giudice Ugone II (1321-1335) quanto sotto Mariano IV (1347-1376), è documentato l’impiego delle lingue che accompagnano il volgare sardo: il latino e il catalano, in primo luogo, ma anche l’italiano e il francese.
In questo contesto Mariano IV emana, dopo il 1353, un Codice rurale che successivamente diviene il Codice di leggi civili e criminali (o penali) ripreso e promulgato da Eleonora, probabilmente nel 1392, nella formulazione nota come Carta de Logu.
La Carta de Logu riveste un’importanza fondamentale nella storia sociale e linguistica della Sardegna. Estesa dal 1421 all’intero territorio isolano, fuorché alle città con statuto proprio, superando secolari e non lineari vicende storiche, rimane in vigore fino al 1827, quando fu sostituita dal Codice feliciano.
La storia della Carta de logu contiene ulteriori motivi di interesse che risiedono nella lingua in cui fu scritta e nel ruolo che svolse all’interno della società sarda.
La lingua in cui è redatta la carta è definita da Antonio Sanna “una varietà arborense”. È una lingua di confine che mantiene al suo interno i due tipi dialettali logudorese e campidanese.
Accanto alla sua funzione giuridica importantissima, la Carta assolse a due compiti di grande rilievo:
- ricordò in ogni momento ai sardi che, pur nella miriade di distinzioni interne e nella subalternità politica verso un dominatore esterno, appartenevano a un ethnos e che, anche sotto il profilo linguistico, potevano specchiarsi in un tratto comune, in quella “omogeneità primitiva” sulla quale si fondava la lingua della legge;
- abituò i sardi a considerare come evento normale il fatto che quel supremo documento fosse scritto non in una lingua aulica e distante dall’uso ma nel “tipo dialettale di un’area di confine”
Antonio Cano
Ad Antonio Cano si deve il primo poemetto in volgare, Sa Vitta et sa Morte et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu.
Le notizie sulla sua vita sono scarse, si sa che è nato a Sassari alla fine del XIV secolo. Dopo essere stato rettore della villa di Giave, fu eletto abate di Saccargia e poi ordinato vescovo di Bisarcio prima di diventare arcivescovo di Sassari. Sa Vitta et sa Morte et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu è la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi cono-sciuta. È un poemetto di argomento agiografico che ripropone, attingendo da fonti narrative medievali, il modello martiriale.
Edizione contemporanea del testo di Antonio Cano
Gavino, Proto e Gianuario, martiri turritani, vengono riproposti come modelli esemplari di coerenza contro i falsi miti e i falsi valori, in una Sardegna che, a distanza di tredici secoli dal martirio, intende fondare sulla tradizione cristiana e sulla lingua e la cultura sarda, la propria identità di popolo che prende coscienza della propria condizione in un clima di accese speranze di riforma morale.
Le scelte retoriche, la spiccata tendenza alla drammatizzazione, la forza espressiva e l’arditezza del dettato rimandano ad una intertestualità ampia e ad una tradizione che, a partire dalle origini dell’Europa cristiana, si muove nell’alveo della ricca e multiforme letteratura di argomento religioso.
Il Laudario lirico
Altro testo di rilievo del periodo è il Laudario lirico ritrovato da Damiano Filia a Borutta, che documenta anche per la Sardegna la presenza di tradizioni francescane paraliturgiche nutrite di musiche e canti.
L’Alziator ritiene che nelle laudi dalle quali è composto sia evidente “la derivazione dalla poesia italiana dei secoli precedenti”. Dello stesso Laudario fanno parte anche la Laude de Nostra Signora de sa Rosa e le Laudes de sa Santa Rughe, in volgare sardo, che ricalcano lo schema e l’andatura dei tradizionali gosos sardi. I gosos sono le laudi per i santi locali, composte per lo più da ecclesiastici.
Letteratura e lingue
È significativo che nella Sardegna della fine del XV secolo, dove già cominciava a brillare il prestigio del castigliano, lo stesso destino della tradizione isolana colpisce la letteratura in catalano.
Ci rimangono infatti solo tre testi:
- il Cant de la Sibilla;
- la Vida y miracles del benaventurat sant’Anthiogo, entrambi di ambito paraliturgico nel quale si iscrive anche la tradizione popolare di goigs;
- le Cobles de la conquista des francesos, che celebrano il fallimento dell’invasione di Alghero da parte del Visconte Guglielmo di Narbona, nemico del re d’Aragona in quanto erede del titolo e dei beni dei Giudici di Arborea.
Xilografia del Sant Anthiogo pubblicata in Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo (Barcellona, 1890)
La stabilità politica acquisita alla fine del Quattrocento, che iscrisse definitivamente la Sardegna nel sistema iberico, non si tradusse immediatamente in un’egemonia culturale e linguistica castigliana.
La storia linguistica della Sardegna dal Trecento ai primi del Cinquecento può essere così schematizzata:
- il sardo, in posizione subalterna dopo la caduta dell’ultimo Giudicato, resistette alla riduzione a puro e semplice dialetto grazie alle disposizioni della Carta de Logu, che ne legittimarono l’uso notarile e giuridico, e all’azione di alcuni centri religiosi e culturali quali quelli francescani;
- il catalano penetrò lentamente, specie nel secolo che va dal 1450 al 1550, anche in ambiti sociali non elevati e nelle zone dell’Isola da cui era rimasto in precedenza escluso;
- il castigliano si affermò inizialmente per il prestigio di cui godeva, poi per un’azione autoritaria realizzata specialmente dalle strutture ecclesiastiche;
- la tradizione italiana perdura fortemente fino al XVI secolo, dopo si indebolisce fortemente.
IL CINQUECENTO
Note introduttive
Nel 1566 Nicolò Canelles fonda a Cagliari la prima stamperia, che comincia a stampare con regolarità testi per lo più d’argomento religioso, anche se non mancano i titoli degli autori classici. A questa attività, a partire dal 1571, Canelles affianca quella della diffusione di libri pubblicati altrove. Il confronto con la cultura del tempo si mantiente nonostante le gravi difficoltà dell’isola quali:
- pestilenze
- scorrerie barbaresche
- calo demografico
- effetti devastanti della guerra franco spagnola
- basso livello dell’istruzione pubblica.
La vivacità culturale del periodo è provata anche dal numero dei libri posseduti da alcuni illustri personaggi dell’epoca.
Permane il pluralismo linguistico:
- Il catalano è prevalentemente la lingua delle attività giuridiche e amministrative, a Cagliari in particolare. Nel periodo dal 1450 al 1550 penetra anche in ambiti sociali non elevati e nelle zone dell’isola da cui in precedenza era escluso.
- Il sardo, pur in posizione subalterna, è vivo in tutte le parti dell’isola, soprattutto negli ambienti popolari. Il suo utilizzo in campo giuridico e notarile resistette grazie alle disposizioni della Carta de Logu e all’azione di alcuni centri religiosi.
- L’italiano è marginale e diffuso soprattutto negli ambienti del commercio genovese.
- Il castigliano comincia a diffondersi, non senza difficoltà.
Mappa di Cagliari elaborata dagli scritti dell’Alquer
La scelta della lingua
Il pluralismo linguistico si riflette anche nelle scelte linguistiche degli autori sardi.
- L’algherese Antonio Lo Frasso (seconda metà del XVI secolo) scrive in castigliano e solo marginalmente in catalano e in sardo;
- il canonico Gerolamo Araolla (1545 – fine del sec. XVI) scrive in castigliano, italiano e sardo;
- il nobile bosano Pietro Delitala (1550 – 1592 circa) in italiano;
- l’umanista Gian Francesco Fara scrive in latino;
- Sigismondo Arquer in latino, italiano e castigliano.
- Un cenacolo di studiosi sassaresi vive ed opera fra Sassari e le università di Pisa e di Bologna, scrivendo, dato l’ambito accademico in cui agiscono, prevalentemente in latino.
In questo quadro va intesa la caratteristica principale del Cinquecento isolano:
- per la prima volta la Sardegna diviene oggetto di studio
- il sardo viene utilizzato nella poesia amorosa e in quella celebrativa e encomiastica.
È da rimarcare, tuttavia, che gli autori non sono mossi da un forte sentimento di appartenenza, da un’identità sarda avvertita come culturalmente rilevante. Essi non scrivono di Sardegna o in sardo per inserirsi in un sistema isolano, ma per iscrivere la Sardegna e la sua lingua in un sistema europeo, per farla conoscere, dipingendola secondo le forme e i codici della cultura europea.
La letteratura celebrativa ed encomiastica
Elevare la Sardegna ad una dignità culturale pari a quella di altri paesi europei significava anche elevare ed integrare nel sistema europeo i sardi, e in particolare i sardi colti, che si sentivano privi di radici e di appartenenza nel sistema culturale continentale.
Anche quando scrissero in sardo (come fece l’Araolla), anziché in latino o in italiano, lo fecero sì per esigenze di comunicazione interna – forse è il caso di ricordare che non pochi di essi erano sacerdoti e dunque con una naturale inclinazione per i generi e i toni didascalico-moraleggianti – ma soprattutto per dotare la Sardegna di quella tradizione letteraria, e quindi di quel lustro e di quella nobiltà che, mancando, la rendeva negletta.
In pieno ’700 neoclassico il gesuita Matteo Madao tentò un’analoga operazione con una maggiore disponibilità a sostituire con l’invenzione ciò che la storia non forniva.
Nell’Ottocento, il canonico Giovanni Spano trovò che anche la lingua dovesse essere nobilitata e resa più illustre con l’inserimento di tanto lessico italiano, latino e ebraico.
È, insomma, una costante di alcuni autori sardi tentare una costruzione artificiale della lingua letteraria. I processi di imitazione ingenua delle lingue letterarie affermate svelano con chiarezza la debolezza del sistema letterario interno, dovuto a carenza di lettori, di istituzioni educative e culturali, alla reale natura sovrastrutturale dell’attività letteraria nel contesto di povertà e di privilegio.
Il trilinguismo
I maggiori scrittori del Cinquecento utilizzano con intenti letterari più di una delle quattro lingue usate comunemente. Il sardo è la lingua che serve per raggiungere un pubblico che parla il sardo attraverso l’intermediazione di un lettore che con questo pubblico ha un rapporto strettissimo, di solito il clero. Lo spagnolo e l’italiano si rivolgono ad un ambito culturale più ampio e servono per comunicare con le istituzioni e con il potere.
Tra gli scrittori plurilingue meritano un rilievo particolare:
- Antonio Lo Frasso
- Gerolamo Araolla
- Pietro Delitala
Antonio Lo Frasso
L’opera di Lo Frasso merita rilievo per il doppio e contemporaneo riferimento alle letterature italiana e spagnola e il gusto per la mescolanza dei generi e delle lingue. Egli scrisse prevalentemente in castigliano e, marginalmente, in sardo e in catalano.
Poeta e militare, originario di Alghero, Lo Frasso lasciò l’isola per trasferirsi in Spagna, dove compose in lingua spagnola tre operette intitolate:
- Los mil y dozientos consejios y avisos discretos, che contiene consigli e ammonimenti rivolti, in versi, ai figli rimasti ad Alghero;
- El verdadero discurso de la gloriosa victoria, cronaca in ottave della battaglia di Lepanto;
- Los diez libros de la fortuna d’amor. A quest’ultima, pubblicata nel 1573, deve l’attenzione di Cervantes, che lo menziona nel Don Chisciotte. Il suo successo fu dovuto proprio al giudizio di Cervantes, che conosce Lo Frasso, ne ha letto l’opera e può parlarne ai lettori del Don Chisciotte con tono ironico e ammiccante. Los diez libros è un romanzo pastorale con spunti autobiografici, articolato in una serie di vicende ad intreccio, a metà strada tra il mitologico e l’avventuroso. Egli si rivolge qui ad un pubblico urbano, mondano e un po’ frivolo.
Se da un lato città come Alghero e Cagliari erano forse gli ambienti più aperti dell’Isola verso la cultura iberica e verso l’apertura europea, da un altro però, essendo prive di una solida tradizione culturale locale, si autointerpretavano secondo uno spirito coloniale, nell’eterno confronto con il centro lontano del potere, egemone, ammirato, imitato, temuto, da dover replicare per sentirsi nella storia. Non a caso, Lo Frasso, seppure per ragioni meramente giudiziarie, si trasferì da Alghero a Barcellona.
Egli comunque inserisce ne Los diez libros due sonetti in sardo logudorese, uno di argomento amoroso Cando si det finire custu ardente fogu e l’altro dedicato a San Leonardo Supremu gloriosu excelsadu, ed una lunga composizione in ottave intitolata Glossa sarda. L’inserimento di questi testi è giustificato con il lettore ora con banali motivi mimetici (San Leonardo è sardo, quindi occorre rivolgersi a lui in sardo), ora dalla curiosità salottiera delle dame barcellonesi verso l’inconsueta e poco nota lingua montana della patria di origine del protagonista Frexano.
Resta il fatto che, pur con i limiti critici di questo recupero del sardo per esotismi da salotto, Cando si det finire custu ardente fogu è la prima lirica d’amore della letteratura sarda, e che il logudorese di Lo Frasso è, come quello di Araolla, di buona qualità e fortemente influenzato dall’italiano. Se a ciò si aggiunge che Lo Frasso dedica un sonetto in castigliano a Gerolamo Vidini di cui parla anche Araolla nel suo Capidulu de una visione, non si può non nutrire il sospetto che anche il poeta algherese sia stato influenzato dal cenacolo dei sassaresi e dal loro programma sardo-centrico.
Gerolamo Araolla
Gerolamo Araolla (1545 – fine del XVI secolo) è l’autore che meglio di altri illumina tanto il clima del Cinquecento sardo, quanto l’eredità ricevuta dal XV secolo.
La sua prima opera è Sa vida su martiru et morte dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu e Gianuari (1582), argomento (l’epopea dei santi, abbastanza innocua politicamente e culturalmente) sopravvissuto alla catastrofe della guerra e già trattato, come si è visto, dal vescovo di Sassari Antonio Cano.
Il suo scopo era duplice:
- dare dignità letteraria al logudorese
- affrontare e recuperare un tema nazional-religioso molto noto e diffuso, e quindi vocato ad assumere funzioni edificanti.
Nel 1597 Araolla pubblica la raccolta di poesie in diversi metri intitolata Rimas diversas spirituales, nella quale include testi in sardo, in castigliano e in italiano. Il suo programma è cambiato: non più un orizzonte tutto interno di nobilitazione del sardo e della Sardegna, ma un inserimento di quell’obiettivo nel contesto culturale dell’Italia e della Spagna.
Araolla conosce la grande letteratura italiana, anche quella contemporanea; ha studiato, analizzato e riflettuto, riuscendo ed elaborare un programma acuto e moderno; a lui si deve la stesura del bando della nuova letteratura sarda.
Come la maggior parte degli autori sardi, anche Araolla confronta le proprie esigenze espressive con le opere realizzate da sos eccellentes et famosos Poetas Italianos et Spagnolos.
Sigismondo Arquer
Sigismondo Arquer
La figura di Sigismondo Arquer (1530-1571) si presenta rispetto all’intero sistema sardo come dotata di requisiti di eccellenza e di originalità. Non tanto per la tragicità della sua esistenza, ma anche e soprattutto per l’originalità dei punti di vista e l’eleganza della lingua che caratterizzarono l’unica sua opera relativa alla Sardegna, la Sardiniae brevis historia et descriptio.
Avvocato, teologo e studioso cagliaritano, frequentò ambienti religiosi legati al luteranesimo. Nel 1563 venne accusato di eresia dall’Inquisizione, rinchiuso nel carcere di Toledo e sottoposto a giudizio. Condannato, morì sul rogo il 4 giugno 1571.
Nel 1549 collaborò a Basilea con Sebastian Münster alla stesura della Cosmographia Universalis, realizzando una monografia sulla Sardegna, Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata). Nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio Arquer assume la sua fede come fondamento dell’interpretazione della storia. Il suo rapporto diretto e personale con la Scrittura era animato da una notevole autonomia dottrinaria.
Anche il rapporto con i classici è caratterizzato da pari autonomia. Questi, anzi, vengono puntualmente smentiti attraverso argomentazioni fondate sull’esperienza personale. Il giudizio sulla società del suo tempo è netto: è una società malata perché priva di sani principi, non perché mal governata o ribelle.
Tuttavia questi giudizi che investono la sfera morale e dipingono l’Isola come un covo di ignoranti, si ritrovano concentrati nel capitolo intitolato De civitatibus. Il luogo dell’immoralità è la città, e specialmente l’unica vera città, cioè Cagliari, non a caso sede di quel potere locale che più di ogni altro odiò Arquer.
Egli fu l’unico intellettuale sardo a non essere ossessionato dall’ansia di integrazione e di riconoscimento da parte della cultura europea. Usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante.
Arquer conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.
La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane. È l’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.
La personalità dell’Arquer si staglia nel panorama sardo, emblematica per la grandezza, contraddittoria col quadro generale e, nel contempo, del tutto coerente con le aspirazioni e le qualità migliori che quel contesto era in grado di produrre. La sua vicenda, poi, è come un sigillo che si è impresso nella coscienza di non pochi intellettuali sardi e ha determinato un’impronta, come un mito che non ha perso vitalità nel corso del tempo. Dottrina, dirittura morale, coraggio, libertà di pensiero, spirito critico, imparzialità, amore per la propria terra: tali le caratteristiche che, anche nel Novecento, vengono attribuite all’autore cinquecentesco da un’intellettualità colta e sardista per la quale la figura dell’Arquer ha rappresentato un modello ideale.
Storici ed eruditi
Oltre a Sigismondo Arquer il contesto culturale isolano dell’epoca può vantare autori di opere storiche, esperti di diritto e raccoglitori di leggi, scienziati, teologi.
Tra questi Giovanni Francesco Fara, Giovanni Arca e Antioco Brondo, Francesco Bellit e Pietro Giovanni Arquer, Gavino Sambigucci e Gian Tommaso Porcell. Scrivono di storia, di geografia e di diritto, di filosofia, di medicina e, talora, verseggiano, utilizzando il latino e lo spagnolo.
Tratti caratteristici:
- appartengono ai più diversi settori della vita civile: sacerdoti, giuristi, professori dell’Università, studiosi non inseriti in una struttura accademica, medici e filosofi;
- mostrano un notevole dinamismo culturale (viaggiano, tengono conferenze, scambiano lettere, leggono opere letterarie, fanno circolare le proprie); rappresentano una notevole varietà di interessi, che si rivela nella qualità delle opere prodotte;
- mostrano una doppia attenzione verso la cultura italiana e quella spagnola, la frequenza delle università italiane e di quelle iberiche, la scelta dell’una o dell’altra lingua, in alcuni casi di entrambe, per accompagnare le scritture in latino.
Giovanni Francesco Fara
Giovanni Francesco Fara è considerato il padre della storiografia sarda, l’Erodoto di Sardegna. Nacque a Sassari nel 1543 da una delle più illustri casate della città. Nel 1567 pubblicò a Firenze il trattato De essentia infantis, unica opera della sua produzione giuridica giunta fino a noi.
La sua fama letteraria è legata soprattutto a due opere del genere erudito-storiografico tardo cinquecentesco:
- De Rebus Sardois, opera annalistica in quattro libri, di cui il primo fu pubblicato nel 1580, gli altri nel 1835. Scritta in un latino che riprende i modi degli storici classici, costituisce un importante punto di riferimento per gli storici posteriori.
- De chorographia Sardiniae, rimasta inedita sino al 1835, unisce all’informazione storica la descrizione geografica, secondo un modulo destinato a ritornare nel corso del tempo.
Nel De corographia Sardiniae egli segue il canovaccio dell’opera di Sigismondo Arquer, inserendone anche alcuni passi senza citare l’autore, e censurando dell’Arquer l’impostazione ideologico-religiosa.
Fara condivise con Araolla il progetto di fondare una tradizione di studi sardi da realizzare secondo una prospettiva che ne garantisse l’inserimento nei più vasti circuiti italiani e spagnoli. Si laureò a Pisa nel 1567; il 6 dicembre del 1568 il vescovo di Sassari lo nominò arciprete. Il Capitolo turritano contestò la nomina ed egli dovette recarsi a Roma per perorare e difendere la sua causa. Qui risiedette probabilmente dal 1570 al 1578. Fu forse in questo periodo che ebbe modo di leggere un numero consistente di documenti custoditi negli archivi e nelle biblioteche vaticane. Fu lì che conobbe una Sardegna che gli era ignota e che entrò in contatto con la storiografia erudita e curiale romana che molto influì sulle sue scelte metodologiche. Il suo De rebus sardois – di cui riuscì a pubblicare solo il primo libro, essendo morto nel 1591 poco dopo essere stato nominato vescovo di Bosa – costituisce un corpus di citazioni e di notizie che tentano di restituire ai contemporanei il senso della memoria storica della Sardegna.
L’opera dei gesuiti
Fanno eccezione, rispetto a queste dinamiche di integrazione e legittimazione, i gesuiti del XVI secolo. Con una serie di missioni nei piccoli villaggi dell’interno inaugurarono un’opera di rievangelizzazione e di acculturazione che, per un brevissimo periodo – fino a quando non venne vietato dal re – prevedette anche l’insegnamento in sardo, secondo la pedagogia missionaria gesuitica che i padri ebbero modo di sperimentare anche in Sudamerica. Si intende cioè dire che, a differenza degli intellettuali sardi, l’interesse dei Gesuiti per la Sardegna, per quanto fosse in primo luogo pastorale, era più incardinato sull’urgenza di capire i processi isolani che non sulla necessità di ingentilirli o sublimarli per ottenere, attraverso questa finzione, l’integrazione non della Sardegna, ma dei suoi ceti egemoni, in un sistema più ampio.
Pagina autografa
Ciò spiega perché si debba alla penna di un ex gesuita, il bittese Giovanni Arca (1562/63 ca – 1599), il De barbaricinorum libelli, che è un vero testo di fondazione di un mito e di un’ideologia. Arca ripropone per i Barbaricini appunto, le origini mitiche derivate da Iolao, compagno di Ercole, eponimo degli Ilienses, nome con cui venivano designate in diverse fonti antiche alcune popolazioni dell’interno dell’Isola.
Il mito della Barbagia – e con essa di ogni roccaforte montana della Sardegna – come luogo incontaminato di un’antichità leggendaria, sede di fiere popolazioni resistenti agli invasori, luogo insomma della più schietta identità isolana, nobilitata nel Cinquecento con il richiamo alle origini classiche e nell’Ottocento romantico con i toni e i colori del primitivo, del fiero e del feroce, ha avuto un pendant ideologico non irrilevante che dura fino ai nostri giorni.
La narrazione è intessuta su un fitto reticolo di fonti che l’autore non esita a piegare pur di raggiungere l’obbiettivo di creare una vera e propria epopea dei Barbaricini. L’opera di Arca attesta che il localismo in Sardegna si radica, almeno nel suo riflesso letterario, contestualmente all’affermarsi di un’integrazione sovraregionale e pertanto è il segno di uno squilibrio interno, non di una chiusura verso l’esterno.
Pietro Delitala
Forse il più integrato nel clima culturale italiano fu Pietro Delitala (1550 -1592 circa). Nato a Bosa, durante il suo lungo esilio in Italia, entra in contatto con gli ambienti letterari e, probabilmente, anche col Tasso, la cui opera, comunque, conosce e considera quale indispensabile punto di riferimento. E’ autore di un canzoniere in lingua italiana, Rime diverse, di chiara ispirazione petrarchesca, pubblicato a Cagliari nel 1596. Nell’opera Delitala si dimostra inserito negli sviluppi manieristici della tradizione lirica italiana, la materia delle poesie è ricca di interessanti riferimenti autobiografici e alla realtà sarda. E’ stata messa in dubbio la conoscenza personale del Tasso da parte del Delitala, ma il sonetto indirizzato all’autore della Gerusalemme liberata, sembra confermare questo rapporto. Nell’introduzione alla sua raccolta si scusa per avere scelto l’italiano al posto dello spagnolo o del sardo e chiede clementia per la sua prova poetica. La sua opera rappresenta al meglio la tendenza, da parte degli intellettuali sardi, a mantenere i tre filoni della sua tradizione letteraria: quello italiano, quello spagnolo e quello sardo.
IL SEICENTO
Note introduttive
Durante il Seicento, tutti i testi in castigliano sono opera di esponenti del ceto feudale o della burocrazia del Regno; quelli in sardo sono opera di sacerdoti di periferia, parroci di piccoli paesi o religiosi di alcuni conventi dell’interno che praticano generi minori o si dedicano alla traduzione a fini didascalici della tradizione agiografica. La coesistenza dei due sistemi linguistici nei testi non marca solo un confine sociale, tra istruiti e ricchi da un lato, e incolti e poveri dall’altro, ma anche geografico, tra la città e la periferia. E’ emblematico in tal senso il contrasto tra il cittadino e il pastore nell’Alabanças de San George obispo Suelense Calaritano di Juan Francisco Carmona (giurato di Cagliari nel 1623), dove, oltre alla contrapposizione dei codici e degli stili (da una parte l’elaborato castigliano del cittadino, dall’altro il sardo elementare del pastore) si ha anche il topos del mondo rurale ignorante e credulone, esposto alla facile e compassionevole ironia del mondo della città e della sua cultura. Nel Seicento la Sardegna passa dall’integrazione subita a quella voluta.
Padri gesuiti che si preparano alla processione di origine secentesca dei Misteri
Eventi storici
Il secolo XVII si apre per l’isola con la convocazione del Parlamento che stabilisce misure in favore dell’agricoltura, del riordino delle strade e dell’erezione di nuove torri per la difesa costiera.
Su richiesta degli Stamenti sono istituite le Università a Cagliari (1626) e a Sassari (1632).
Nel corso del secolo la situazione dell’isola si fa via via più difficile con la fiscalità in progressivo aumento per contribuire alle spese militari della corona spagnola e, soprattutto, con la terribile pestilenza che dal 1652 al 1657 flagellò l’isola decimando la popolazione.
Si nota un quadro strutturale molto difficile, nel quale si innestano gli avvenimenti storici contingenti:
- gli aumenti dei donativi;
- la recrudescenza delle incursioni barbaresche;
- la guerra dei Trent’anni;
- la travagliata vita politica, che culmina negli assassinii di don Agostino Castelvì, marchese di Laconi, e del viceré, marchese di Camarassa.
Lapide che ricorda l’omicidio del marchese di Camarassa
Romanzieri e poeti
Nel Seicento lo spagnolo è adottato dagli intellettuali sardi come lingua letteraria, di cultura. La cultura sarda entra a far parte dell’universo della cultura barocca.
Ogni scrittore sceglie i propri modelli e alla fine produce un’opera originale, oppure una ricombinazione, un pastiche, destinato a rendere complesso il lavoro dei critici che vogliano descriverne le ascendenze letterarie.
Jacinto Arnal de Bolea è autore di un romanzo in stile culterano intitolato El Forastero. Il forestiero Carlo giunge a turbare la tranquilla esistenza di alcune nobili fanciulle, tra cui quella di Laura, moglie del suo persecutore, il duca Felisardo. Nell’intricatissima vicenda non mancano matrimoni e figli illegittimi, non ultimo quello avuto da Carlo e Laura. Il lieto fine compone ogni tensione: vengono riscoperte le origini nobili del protagonista e i due amanti, dopo la morte di Felisardo, possono finalmente sposarsi. Arnal de Bolea aveva già pubblicato nel 1627 gli Encomios al torneo, poema in ottave in cui descrive il torneo cavalleresco che si svolgeva ogni anno a Cagliari in occasione della festa di San Saturnino ed elogia alcuni nobili sardi. El forastero è scritto in un castigliano ricco di latinismi, italianismi, sardismi e francesismi e, mentre da un lato documenta il forte legame del de Bolea con la Sardegna e in particolare con Cagliari, “madre de forasteros”, dall’altro mostra chiaramente i rapporti che legano l’autore alla letteratura spagnola.
Nel caso dell’opera del cagliaritano Giuseppe Zatrillas Vico, i pareri sono discordi sia sulla valutazione degli aspetti propriamente letterari, sia per quanto concerne il giudizio riguardante l’opera posta in relazione con la società e la cultura del suo tempo. Cagliaritano, di famiglia nobile, oltre che coltivare le lettere, Giuseppe Zatrillas svolse importanti incarichi politici. Nello svolgimento di questi fu accusato di tradimento, esiliato e imprigionato a Tolone. Il suo romanzo Engaños y desengaños del profano amor (1687-1688), che ebbe molta fortuna all’epoca, è incentrato sulla relazione amorosa tra il duca Don Federigo e Donna Elvira Peralta. La trama è fortemente intricata e appesantita dalla magniloquenza tipica dello stile barocco, mentre abbondano le sentenze morali (las moralidades) volte a scoraggiare i peccaminosi amori adulterini, secondo un gusto controriformistico che tanto favore incontrava nella cultura spagnola del tempo.
Storici ed eruditi. Vico, Vidal e Aleo
Il Seicento è ricchissimo di storici. Il motivo di questa ricchezza si ritrova nel contesto politico. Il confronto tra Sassari e Cagliari, confronto di puro potere, si ammantò di cultura e di letteratura con la difesa, l’esaltazione e la riscoperta, per ognuna delle città, di una legione di martiri, esibiti come prove del primato del nord sul sud dell’isola e viceversa. Spesso questo localismo sfociò in opere storiografiche di intento propagandistico, ma con dei risvolti e delle motivazioni diverse rispetto a quelle che avevano caratterizzato il secolo precedente. Il localismo del XVII secolo è propaganda politica, assolutamente inutile rispetto all’integrazione della Sardegna nel mondo ispanico, ma rilevante co-me strumento della lotta tra diverse élites politiche per la conquista o il rafforzamento del poco potere interno e dei suoi processi di derivazione dalla corona spagnola. La produzione di un’estetica del localismo come supporto propagandistico dell’azione di un ceto politico aristocratico cittadino, o cantonale o territoriale, è una costante della contiguità tra intellettuali e potere che ha prodotto, fino ai nostri giorni, non poche deformazioni del sistema culturale isolano e dei suoi rapporti con il sistema europeo.
Rientra in questo quadro l’Historia general de la Isla y Reyno de Cerdeña dello storico sassarese Francisco de Vico, primo magistrato sardo eletto al Consiglio d’Aragona, il quale riprende la tradizione storiografica sarda e la usa come strumento di lotta politica.
Si inseriscono in questo contesto anche le opere del grande rivale cagliaritano del De Vico, il cappuccino Salvatore Vidal (il cui vero nome era Giovanni Andrea Contini) che scrisse di storia profana e religiosa, di letteratura e poesia, utilizzando il latino, lo spagnolo e il sardo. La difesa che egli fa del sardo nella sua Urania Sulcitana (1638) va compresa all’interno di questi scontri campanilistici, e quindi non contraddice, e anzi conferma, il quadro di subordinazione del sardo.
È invece parzialmente diverso il caso di Jorge Aleo (1620 circa – 1684 ca) cappuccino, coinvolto nella lotta politica cagliaritana. La sua Historia cronológica y verdadera de todos los sucesos y casos particulares sucedidos en la Isla y Reyno de Serdeña del año 1637 al año 1672 è sì un’opera storica, ma soprattutto un’autodifesa. La sua opera manifesta il tentativo delle della classe intellettuale sarda di portare avanti le istanze autonomistiche.
Il teatro
A differenza del carattere elitario, ideologico e artistico, del Rinascimento, il Barocco, com’è noto, recupera molti aspetti della cultura popolare e medievale: il gusto per il macabro, per lo spettacolare, per le grandi manifestazioni collettive di dolore o di gioia e per il carpe diem carnevalesco.
In un’area di confine tra la liturgia e la devozione popolare si collocano le sacre rappresentazioni, spesso veicolo di evangelizzazione e di educazione del popolo – secondo la regola dell’insegnare dilettando – spesso, specie quando non sono opera di ecclesiastici, luoghi di un sincretismo tra cultura alta e cultura popolare, tra cultura scritta e cultura orale, che lascia trasparire realtà più complesse di quelle ricavabili dalla lettera dei testi. E’ il pubblico a cui questi testi erano destinati che ci consente di comprendere e ben interpretare l’uso del sardo che vi troviamo largamente attestato.
Nel Seicento dunque assume un’importanza notevole il teatro, e soprattutto la rappresentazione drammatica. L’attività teatrale, che costituisce un elemento importante dell’educazione religiosa e letteraria, impiega molteplici lingue: il catalano, che comincia ad avere una presenza meno marcata, il castigliano, che invece si espande, il sardo e, in qualche caso, il latino.
L’ispanizzazione determinava un gusto per lo spettacolo e la festa barocca che in Sardegna trovava alimento negli aspetti drammatici della situazione sociale ed economica e nella tensione religiosa. Rientrano in questo quadro il genere drammatico delle sacre rappresentazioni e quello paralitugico dei gosos.
Gli autori di testi teatrali vivono nel Seicento l’esperienza di chi si trova in bilico fra universi culturali diversi, percepisce il fascino della propria, tradizione, ancorché modesta, raccoglie le suggestioni provenienti dalla grande cultura iberica e, contemporaneamente, non dimentica gli stimoli della cultura e della letteratura italiana.
Vanno citate a questo proposito quindi le opere di Juan Francisco Carmona, Alabanças de San George obispo Suelense Calaritano, e la Passión de Christo Nuestro Señor che descrivono le manifestazioni per il ritrovamento del corpo dei santi e contengono gosos in lingua catalana e castigliana.
Meritano di essere menzionati anche gli scritti di Antonio Maria de Esterzili, cappuccino (1644-1727), Comedia de la passion de Nuestro Señor Jesu Christo, Conçueta del nacimiento de Christo, Rapresentacion del desenclaimento de la cruz de Jesu Christo Nuestro Señor.
Un discorso a parte meritano le opere settecentesche di Giovanni Delogu Ibba, rettore di Villanova Monteleone, Tragedia in su isclavamentu de su sacrosantu corpus de nostru Sennore Iesu Christu, opera che occupa il settimo libro del suo Index libri vitae, zibaldone di versi in latino e in sardo di cui sono particolarmente interessanti i gosos del sesto libro; le opere del sarto di San Vero Milis Maurizio Carrus, Sa passione et morte de nostru Segnore Jesu Christu segundu sos battor evangelistas, e del bororese Gian Pietro Chessa Cappay, Historia de la vida y hechos de San Luxorio, dove interviene anche il personaggio comico, che parla in sardo, Barrilotu, mentre san Lussorio parla in castigliano.
Il testo drammatico più rilevante del periodo è una commedia in lingua castigliana intitolata El saco imaginado del gesuita algherese Antioco del Arca, rappresentata per la prima volta nel 1622, quando vennero riportati a Porto Torres i resti dei santi Gavino, Proto e Gianuario. L’autore si rivolge qui ad un pubblico non popolare e più esigente sotto il profilo estetico.
Si sviluppano in ambito sardo i gosos (goccius) che riprendono un modulo della poesia religiosa catalana finendo col divenire un’espressione tipica di una poesia sarda fortemente legata alle forme dell’oralità e della recitazione pubblica.
«Lo sviluppo del teatro nel Seicento sardo nasce dall’incontro di tre fattori: l’intensa vita religiosa locale; la preesistente tradizione teatrale a livello popolare e, infine, l’innesto sulle tradizioni indigene della cultura spagnola e italiana» Sergio Bullegas.
Degna di rilievo, per originalità e livello culturale, è la proposta per un uso letterario del sardo, presente nell’Introduzione al Legendariu de santas virgines de Jesu Christu (traduzione in sardo di una serie di vite di sante celebri datata 1627) di Gian Matteo Garipa. Il sacerdote orgolese, parroco di Baunei e Triei, sostiene la necessità dell’insegnamento del sardo nelle scuole come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue.
Sembrerebbe la difesa di una lingua sentita come propria, apprezzata per le sue qualità intrinseche e per il valore didattico che potrebbe assumere, eppure definita “limba latina sarda”. Consapevole di aver ricevuto quella lingua in eredità dal peggiore dei dominatori, Garipa mostra la serena consapevolezza di chi sa di appartenere a un corpo sociale fortificato da secoli di traversie, reso capace di metabolizzare qualunque elemento estraneo e di trasformarlo in nutrimento per la propria identità.
Egli ebbe da una parte la consapevolezza, di tipo linguistico, del carattere conservativo del sardo e dunque della sua maggiore prossimità al latino; dall’altra fu convinto dell’urgenza di dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale», ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.
IL SETTECENTO
I cambiamenti
Nel 1720 l’isola è assegnata al Piemonte, che avrebbe preferito mantenere la Sicilia. Termina così la dominazione spagnola cominciata nel 1323. La situazione dell’isola è grave per ragioni di diversa natura:
- calo demografico
- estrema miseria
- agricoltura ridotta a un puro livello di sussistenza
- difficoltà dei trasporti e commercio praticamente inesistente
- condizioni igieniche e sanitarie assolutamente deficitarie
- ignoranza diffusa
- ordine pubblico precario: banditismo e scorrerie barbaresche.
Il Settecento è dunque per i sardi un secolo di importanti mutamenti. Dopo aver gravitato per secoli nell’orbita culturale del mondo ispanico, l’Isola fu ricondotta nell’area della cultura italiana.
La dinastia dei Savoia, per crearsi una base di consenso allargata, si preoccupò di formare una classe dirigente che rispondesse meglio alle esigenze di una società civile improntata a modelli, se non proprio illuministici, almeno più moderni.
Per contrastare l’uso del castigliano, che continuò ancora a lungo ad essere la lingua ufficiale del Regno, i Piemontesi, nonostante si fossero impegnati col trattato di Londra a non modificare lo stato di cose esistente, e cioè l’arretrata articolazione feudale del Regnum Sardiniae, promossero lo studio dell’italiano, istituendo nuove cattedre di grammatica e di eloquenza italiana che dovevano italianizzare le professioni.
D’altra parte, per trovare consenso nel popolo e per decastiglianizzare la Sardegna più in fretta, promossero anche l’uso della lingua sarda. Questo programma di doppio binario linguistico, rivolto a rimuovere le tracce del vecchio potere feudale spagnolo e a consolidare il nuovo ordine, continua per tutto il Settecento, e comincia a dare i suoi frutti, per quel che riguarda la comunicazione letteraria, alla fine del secolo con una larga produzione di versi scritti in sardo che merita già attenta considerazione, ma anche con buone opere di divulgazione “scientifica”.
Le riforme sabaude
L’economia sarda è arretrata: permangono strutture feudali superate e un sistema di sfruttamento della terra inefficace.
Le riforme sabaude, inizialmente molto lente, sono dettate dalla volontà di riordinare il possesso e razionalizzarne lo sfruttamento.
Il processo riformistico, che coinvolgerà anche le università di Sassari e Ca-gliari toglierà gli intellettuali sardi dalla sfera di immobilismo culturale nella quale erano caduti.
Con il passaggio dell’Isola sotto casa Savoia (1720), dunque, il sistema sar-do-ispanico progressivamente si sfalda.
Il castigliano sopravvive per altri quarant’anni come una lingua alla deriva, come una lingua ormai priva di ciò che le conferiva prestigio; l’aristocrazia sarda, dopo una fase di sbandamento, è la più interessata ad omologarsi rapi-damente agli usi linguistici e culturali della nuova Casa regnante, ma deve passare attraverso un rapido apprendistato linguistico e culturale che darà i suoi frutti ovviamente solo con le nuove generazioni.
Senza voler fare delle valutazioni sull’operato dei Savoia, si può comunque sostenere che la riforma delle università e della scuola in genere (1760-65), promossa dal paternalismo illuminato del conte Bogino, ebbe come esito po-sitivo la nascita di un autentico ceto professionale di intellettuali che si fece-ro interpreti in Sardegna delle idee e dei metodi dell’Illuminismo prima e del Romanticismo poi.
Dal punto di vista linguistico, nonostante l’iniziale atteggiamento cauto dei piemontesi, il passaggio imposto da un’influenza linguistica all’altra non è indolore.
Lo spagnolo continua ad essere parlato come prima: il primi atti del nuovo sovrano sono in quella lingua, essendo sconosciuto ai nuovi sudditi il fran-cese che nel Piemonte veniva impiegato nella vita pubblica e poco noto l’i-taliano che, per altro, anche a Torino non doveva essere adoperato con molta proprietà.
Con il tempo il sardo riacquista spazio e l’italiano viene nuovamente impie-gato dal ceto dirigente.
La riforma sabauda ha tra i suoi principali propositi quello di sostituire la lingua spagnola con quella italiana.
- Nel 1726 viene commissionato al gesuita Antonio Faletti lo studio di un piano per l’adozione della nuova lingua.
- Nel 1760 viene varato un nuovo ordinamento degli studi inferiori che precede di qualche anno la riforma delle università di Cagliari e di Sassari avviata nel biennio 1764-65.
Si determina, in tal modo, un innalzamento della qualità degli studi e la formazione di un giovane ceto intellettuale destinato a operare tanto nel campo della cultura quanto in quello della pubblica amministrazione e del-l’imprenditoria, attento allo sviluppo e alla circolazione delle idee la cui dif-fusione stava trasformando il volto dell’Europa e, sia pure con qualche ritar-do, anche quello dell’Italia. Da queste riforme prende un percorso che porte-rà alla riscoperta della storia sarda che condurrà ad una vasta produzione di romanzi storici nella seconda metà dell’Ottocento.
La poesia
Il pluralismo linguistico che caratterizza la produzione didascalica e quella drammaturgica si ritrova anche nell’attività poetica del Settecento, che si orienta prevalentemente verso la scelta dell’italiano o del sardo (anche se non mancano versi in castigliano e in latino) a seconda delle scelte culturali, degli orientamenti letterari o politici, dell’appartenenza a questo o a quel-l’altro ambito sociale, a un contesto urbano oppure a quello del paese, alla vicinanza rispetto alla corte e, quindi, al potere politico, delle personali vi-sioni del mondo e delle concezioni relative alle tematiche nazionali sarde.
I processi di italianizzazione incentivati dal governo sabaudo raccolgono il consenso dei letterati gravitanti nell’ambito dell’Arcadia e, più ampiamente, di coloro che partecipavano agli avvenimenti di corte, ai compleanni regali, alle nascite e alle morti, alle monacazioni e ai matrimoni, con un commento poetico.
Nell’ambito della letteratura encomiastica sono da segnalare l’opera di Luigi Soffi, autore di orazioni sacre e di versi raccolti sotto il titolo di Poe-sie (1784), e quella del teologo Giovanni Maria Dettori che si dedicò alla composizione di poesie d’occasione, tradusse in italiano il poemetto Il trion-fo della Sardegna di Raimondo Congiu e il salmo 79.
La figura di maggior spicco è certamente quella di Antonio Marcello (1730-1799) che rompendo la tradizione drammaturgica derivante dall’in-flusso ispanico, prese a modello il teatro italiano e, in particolare, il melo-dramma metastasiano componendo cinque drammi per musica, tre dei quali sono giunti fino a noi:
- Il Marcello (1784)
- La morte del giovane Marcello
- Olimpia ovvero l’estinzione della stirpe di Alessandro il Grande (1785)
La sua produzione testimonia un’indipendenza di spirito che si manifesta anche nella scelta di premettere ai drammi scritti in italiano alcuni versi ca-stigliani che documentano il persistere del fascino esercitato dalla cultura spagnola.
La poesia. Berlendis e Carboni
Come detto, sul versante letterario, l’iscrizione della Sardegna nel sistema culturale italiano avviene sotto il segno iniziale dell’Arcadia e del Neoclas-sicismo. Un ruolo attivo svolgono, in questa operazione di costruzione di una nuova classe dirigente e di diffusione di una nuova estetica, i gesuiti.
Si pensi al vicentino Angelo Francesco Berlendis (1735-1794), professore di eloquenza italiana prima all’Università di Sassari e poi di Cagliari, autore di sonetti, madrigali, epigrammi, nei quali si rifece prevalentemente al Fru-goni – nonché di due tragedie la Sardi liberata e il San Saturnino.
Nel 1764 entrò a far parte della Compagnia di Gesù anche Francesco Car-boni (1746-1817), il maggiore poeta didascalico sardo che scrisse anche in latino, in italiano (Poesie italiane e latine (1774), Sonetti anacreontici (1774), Carmina nunc primum (edita nel 1776) ecc.) e in sardo (De corde Jesu. Sonetti in sardo logudorese sull’Eucarestia, (1842). Tra i suoi titoli tipicamente didascalici ricordiamo il De sardoa intemperie (1772), La sanità dei letterati (1774), La coltivazione della rosa (1776), De corallis (1779).
Carboni è il capostipite di una serie di poeti che si occuparono di agricol-tura, di pesca, di allevamento del baco da seta, rispondendo così da una par-te a una sincera esigenza di partecipazione alla modernizzazione dell’Isola, e dall’altra indulgendo al paternalismo dei Savoia che voleva l’Isola più ric-ca ma lasciava volutamente irrisolti diversi problemi inerenti la libertà dei sardi.
Egli padroneggiò la lingua letteraria latina e, al di là dei riecheggiamenti dei classici e degli umanisti, riuscì a lasciar trasparire costantemente l’amore per la bellezza ed i valori della propria terra senza per questo farsene lodato-re entusiasta, anzi guardandola con occhio critico, attento piuttosto alla solu-zione dei problemi che la affliggevano. In questo seguiva i dettami di una poetica illuministica che lo induceva a vestire di favole argomenti di carat-tere civile che valessero ad indicare le vie del progresso dell’Isola secondo una linea di sviluppo economico basata sulle risorse naturali. Certo la scelta della lingua limitava il suo pubblico, ma lo metteva anche al riparo da cen-sure.
Antonio Purqueddu
Anche Antonio Purqueddu è un significativo rappresentante della intellet-tualità sarda aperta alla cultura contemporanea.
Egli ben rappresenta l’orizzonte culturale e morale di questo gruppo di scrit-tori, prevalentemente ecclesiastici che aderirono sinceramente alla cultura dei Lumi ma mai fino ad abbracciarne gli aspetti politicamente più innovati-vi ed eversivi.
Il suo Tesoro della Sardegna nel coltivo dei bachi e gelsi fu pubblicato nel 1779 in una pregevole edizione della Reale Stamperia di Cagliari. Il poema, composto da 199 ottave divise in tre canti e scritto in sardo meridionale (con traduzione italiana) propone anche un ampio apparato di annotazioni espli-cative che contengono molteplici informazioni riguardanti gli usi, i costumi, le tradizioni popolari, i proverbi, la lingua, la fauna della Sardegna.
Significativa anche la concezione della lingua, per la quale fa una scelta che potrebbe essere definita antipurista: ponendosi in una posizione di assoluta indipendenza, egli ricorre di volta in volta agli apporti linguistici che ap-paiono funzionali rispetto al suo scopo.
E’ dello stesso periodo l’opera di Matteo Madau che introduce l’ipotesi di ripulimento della lingua sarda.
Purqueddu compie una scelta opposta a quella di Madau. Nel suo Tesoro si ritrovano sullo stesso piano lingue e dialetti diversi (sardo, prevalentemente ma non esclusivamente campidanese).
Madau si propone di sviluppare una riflessione sulla lingua sarda, giungen-do a un’ipotesi di tipo puristico. Compone versi e numerose opere, sia stori-che, sia, soprattutto, linguistiche in cui la questione della lingua sembra comprendere e rappresentare altre e più celate questioni, aspirazioni politiche, idealità riguardanti la Sardegna.
Nel Saggio d’un’opera intitolata «il ripulimento della lingua sarda» lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue la greca e la latina (1782), la sua ipotesi di ripulimento, che dovrebbe portare il logudorese quanto più possibile vicino alla “matrice lingua” latina, pur con tutti i suoi limiti, ha come obiettivo quello di dare al sardo maggiore dignità, come merita una lingua nazionale.
La poesia in sardo
Nel Settecento ebbe una notevole diffusione la poesia in sardo, soprattutto legata al mondo tradizionale delle poesia orale che veniva affidata alla me-moria degli ascoltatori.
Pietro Pisurzi (1724-1799), di umili origini, compiuti fra notevoli difficoltà economiche gli studi fino a divenire sacerdote e poi parroco di Tissi, elaborò un’ampia produzione poetica andata per lo più perduta.
Ciò che è giunto fino a noi è però sufficiente a farci apprezzare le qualità di un autore capace di mettere in relazione nei suoi versi le ascendenze lettera-rie con la freschezza derivante dal riferimento a un mondo della realtà dal quale era possibile attingere non solo tematiche ma anche modalità stilisti-che e linguistiche.
Godono di vasta notorietà due sue canzoni, S’abe e S’anzone, favole nelle quali le massime morali e i contenuti allegorici sono espressi con levità poe-tica.
Giovan Pietro Cubeddu (1748-1829), noto come Padre Luca, sacerdote scolopio, abbandonò l’ordine a causa di una malattia e si ritirò a vivere nelle campagne fra Buddusò e Bitti prima, e poi, come servo pastore capraro, in quelle fra Dorgali e la spiaggia di Cala Luna.
In questi anni, molto probabilmente, compose i versi migliori: canzoni di vario metro in dialetto logudorese, dove è rappresentato l’idilliaco mondo pastorale, secondo i gusti dominanti nella cultura letteraria italiana del Sette-cento.
Tra i componimenti del Cubeddu non incentrati sulla tematica amorosa o pastorale, emerge la favola Su leone e s’ainu. La sua poesia è ricca di echi della poesia moraleggiante classica e della tradizione cristiana degli exem-pla.
Anche Gavino Pes, di Tempio, apparteneva all’ordine degli Scolopi, ma ciò non gli impedì d’essere, un poeta principalmente attratto dalla tematica amorosa.
La sua opera manifesta una notevole abilità letteraria, peraltro riconosciuta dai suoi conterranei presso i quali godette di chiara fama. Significativo lo stretto rapporto fra il poeta e la società gallurese: Pes è considerato il capo-stipite della poesia colta in dialetto gallurese.
La sua lingua poetica è sorretta da una vasta cultura letteraria che spazia dai classici latini e greci ai classici della lirica italiana fino ai contemporanei Meli, Rolli, Zappi e Frugoni. Attraverso il magistero dell’Arcadia, la lingua poetica sarda, che allora andava rifondandosi per ciò che attiene al logudore-se, ma che aveva solo una tradizione autenticamente popolare per quel che riguarda il gallurese, riuscì ad acquisire profondità di analisi e di capacità evocative, sia sul versante emozionale che su quello morale, certamente inedite.
Cagliaritano era Efisio Pintor Sirigu, avvocato e autore di componimenti in sardo campidanese che lo presentano come poeta satirico. La sua poesia in sardo campidanese (scrisse anche versi in italiano, in latino) è un esercizio aristocratico, giocato sul versante di un umorismo caustico spesso a sfondo sessuale, svolto da un ricco professionista, quale egli era, in forme linguisticamente e tematicamente popolareggianti.
Sul valore letterario dei componimenti di Pintor Sirigu concordano praticamente tutti i critici.
Meno benevolo il giudizio sull’uomo, sul quale si stende un’ombra che ri-guarda il suo comportamento rispetto a Angioy, di cui fu prima seguace e poi nemico, incaricato della terribile repressione di Bono.
Francesco Ignazio Mannu
L’azione dei didascalici sardi, la loro riflessione e le opere che composero rappresentano il fecondo avvio di una prospettiva di scrittura, in italiano e in sardo, che racchiude speranze politiche e si alimenta nell’amore per la patria sarda.
La loro opera rappresenta lo sforzo compiuto per dare alla Sardegna l’op-portunità di liberarsi dall’arretratezza e dall’isolamento culturale e com-merciale.
L’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu si colloca fra quegli scritti di propaganda autonomistica e antifeudale che ebbero diffusione in Sardegna sul finire del secolo e particolarmente nel triennio rivoluzionario 1793-96.
L’inno fu pubblicato in Corsica nel 1794 e da lì si diffuse in Sardegna in-terpretando un sentimento che riuniva in una comune speranza le diverse classi sociali sarde.
Scritto in logudorese, l’inno si compone di 47 strofe formate da otto versi ottonari, e, sotto il profilo linguistico, si articola su due livelli, uno alto e uno popolare.
Variamente giudicato per le qualità stilistiche, Su patriottu sardu, che è stato chiamato la Marsigliese sarda, appartiene a quel vasto genere innografico ispirato dall’amore per la giustizia e il riscatto degli umili e degli oppressi che si nutre di ideali illuminati e umanitari.
Qui l’inno ha il ritmo di un canto popolare efficace e coinvolgente, la forza di una poesia popolare capace di attraversare il tempo e di rappresentare, nell’Ottocento, le aspirazioni di coloro che sognavano una patria sarda o, nel Novecento, le speranze di quanti combattevano battaglie politiche e sociali.
L’inno non è sardo solo nella lingua, ma anche nel repertorio concettuale e simbolico che utilizza, eppure è nel contempo un esplicito veicolo di cultura democratica d’oltralpe, è cioè un primo esempio di discorso altrui divenuto autenticamente discorso proprio. Forse per il peso sociale del suo pubblico – piccoli e medi proprietari, contadini, borghesi – Su patriotu sardu a sos feudatarios è rimasto un caso isolato di testo politico-propagandistico di successo. Quanto più la classe dirigente isolana si integrerà in quella italiana, tanto più il sardo perderà la sua capacità e possibilità di essere lin-gua della polemica e della competizione politica.
Particolarmente avanzata per il periodo è la posizione dell’opuscolo Achille della sarda liberazione, composto durante i moti del 1793-96, che mostra appieno l’influsso dell’esperienza francese e delle concezioni politiche europee più avanzate.
La letteratura didascalica
Nella seconda metà del Settecento, sulla scia dell’illuminismo europeo, prevale tra gli intellettuali sardi il sentimento della speranza e si sente forte la necessità di armarsi in nome del desiderio di rinascita.
Nell’isola come nel resto d’Europa prende avvio un periodo di profondo rin-novamento. La letteratura didascalica è quella che meglio ne rappresenta le idealità e cerca di trasferirle in prose e versi che si misurano con problemi stilistici e intenzionalità artistiche
Tra i poeti didascalici spiccano in particolare due figure: quelle dell’alghe-rese Domenico Simon (1758-1829) e del cagliaritano Giuseppe Cossu (1739-1811). Quest’ultimo divenne nel 1767 Segretario della Giunta dei monti frumentari, e nel 1770 Censore generale.
Nel 1783 nacquero contemporaneamente i Monti di Soccorso e l’Azienda delle strade e ponti, strumenti dell’innovazione della Sardegna, nei quali Cossu ebbe un ruolo notevole.
Domenico Simon, allievo di Francesco Gemelli (uno dei professori arrivati nell’Isola per innovare gli studi, autore di un discusso saggio sull’agricoltura sarda, il Rifiorimento della Sardegna a cui rispose il sassarese Andrea Manca dell’Arca (1716-1796) con la sua Agricoltura di Sardegna (1780), fu aiutante del Cossu come vice-censore generale dei Monti granatici.
Cossu e Simon sono forse coloro che più di altri aderirono anche politica-mente alle nuove idee illuministiche e all’esigenza di una razionalizzazione del sistema istituzionale, economico e sociale della Sardegna. Furono però fortemente inibiti dall’ottusità e dall’autoritarismo della corte sabauda.
Il tema della coltivazione della terra diviene centrale in molte opere del pe-riodo, che vede una notevole fioritura della letteratura didascalica.
Tra queste le opere del Carboni, del Purqueddu, del Simon, del Valle, del Cossu e del Manca dell’Arca.
Caratteristica comune era il desiderio di riscattare la Sardegna dall’infelice condizione nella quale versa, ricercando nella personale capacità progettuale la via del riscatto.
Il fenomeno si inserisce in un contesto sociale e culturale in cui si diffonde una produzione manualistica, vere e proprie istruzioni per l’uso, che costi-tuiscono il retroterra indispensabile per spiegare lo sviluppo della più elaborata scrittura didascalica.
Il fiorente filone didascalico, in prosa e in versi, testimonia l’adesione all’i-deale illuministico della pubblica felicità, che passa attraverso il fondamen-tale diritto alla conoscenza.
Per il raggiungimento di un simile obiettivo, sono chiamati ad operare tutti gli uomini di lettere. Si cerca di elaborare uno stile nuovo, che attragga il lettore per guidarlo alla totale conoscenza della materia.
Dallo studio e dalla riflessione sulla realtà sarda emergono le cause dei mali e i possibili rimedi: sono compilati saggi, memorie e relazioni.
Non manca il fondamentale contributo del clero, attraverso le omelie o le lettere pastorali tese ad informare la popolazione sulle nuove leggi o a spie-gare come applicarle.
Numerosi ecclesiastici, dal vescovo di Cagliari fino ad alcuni parroci di pic-coli villaggi, ebbero un ruolo fondamentale nell’informare le popolazioni sulle nuove leggi, nello spiegare come applicarle.
Andrea Manca dell’Arca
L’agricoltura era argomento privilegiato sia dagli intellettuali sardi che dai loro governanti piemontesi.
Il trattato Agricoltura di Sardegna di Andrea Manca dell’Arca è la prima opera che affronta in maniera compiuta la problematica relativa alla pratica agricola in Sardegna.
L’opera si distingue per:
- l’informazione tecnica ampia e precisa
- una visione globale dei problemi isolani
- la formulazione di un progetto complessivo
- L’Agricoltura di Sardegna si organizza in varie parti dedicate alle diverse specializzazioni dell’attività agraria:
- il grano
- la vite
- gli alberi e gli arbusti
- le colture orticole
- l’allevamento del bestiame
L’intendimento dell’autore è quello di offrire uno strumento operativo, il frutto dell’esperienza che gli deriva dal lungo contatto con il mondo rurale sardo e dalla consuetudine con le teorie degli scrittori antichi e moderni che si sono occupati d’agricoltura.
Raimondo Valle e Pietro Leo
I tonni di Raimondo Valle non ha una vera finalità pedagogica, ma illustra i momenti più suggestivi della vita dei tonni (gli amori) e della loro morte (la mattanza).
Il suo inserimento fra gli autori didascalici non è comunque casuale: infatti, in alcune delle numerose note del testo poetico, il Valle identifica nella di-versificazione e nella specializzazione delle attività economiche la via di salvezza dell’economia sarda.
Nel quadro del rinnovamento degli studi in atto nel Settecento sardo assume una posizione di tutto rilievo la figura di Pietro Leo.
La sua opera Di alcuni antichi pregiudizi sulla così detta Sarda intemperie, e sulla malattia conosciuta con questo nome è una vera e propria lezione te-nuta agli studenti dell’università di Cagliari in cui l’autore utilizza tutti gli elementi professionali di cui dispone per disegnare un progetto di futuro per la sua terra, prodigandosi contro la più grave malattia che affligge l’isola e l’ignoranza medica che le consente di mietere un numero sempre maggiore di vittime.
L’opera sull’intemperie è la testimonianza del graduale affermarsi di un pensiero scientifico moderno, di un pensiero che trae sostanza dall’analisi scientifica e dalla riflessione filosofica.
L’intera biografia del Leo è una conferma di questa tensione di ricerca che non va disgiunta da una marcata passione civile: lo scienziato, il medico, l’educatore e il politico capace di disegnare, partendo dagli elementi pro-fessionali di cui dispone, un progetto di futuro per la sua terra. In lui con-temporaneamente coesistono e si integrano in una figura di scienziato an-cora in gran parte da scoprire ma che già si mostra inserita in quel mondo di cultura e di progettualità politica al quale appartengono i letterati dei quali ci stiamo occupando.
Francesco Carboni
Francesco Carboni, ritenuto il più grande poeta della letteratura sarda, parla invece di malaria nell’opera De Sardoa intemperie.
Sacerdote gesuita, dopo la soppressione dell’ordine fu docente dell’Uni-versità di Cagliari. Seguace dell’Angioy, conobbe la lingua e la letteratura latina come pochi altri nella sua epoca, e fu notevolmente apprezzato dal mondo culturale italiano.
La sua produzione comprende, diversi scritti didascalici, tra i quali La coltivazione della rosa (1776) e il De corallis (1779).
Certo, la sua attività di poeta didascalico non è comparabile, sul piano dei contenuti, con quella di Cossu o di Purqueddu. Né egli mira a un pubblico popolare da guidare nella progettazione di un futuro di riscatto.
Carboni è un letterato nel senso pieno dell’espressione, un dotto, un latinista conosciuto e stimato che intrattiene relazione con gli ambienti più esclusivi della cultura italiana.
La sua dottrina gli propone una visione del mondo alla quale è difficile sottrarsi, la concezione dell’attività letteraria come otium lo spinge a rinun-ciare a incarichi importanti e gli impedisce, del pari, di esprimere nella sua opera concezioni che pure sente di condividere e per le quali, sul piano poli-tico, è pronto a rischiare.
Gian Andrea Massala
Pur non essendo un poeta didascalico, Gian Andrea Massala si inserisce a pieno titolo nel clima dell’epoca perché con il suo Programma d’un gior-nale di varia letteratura ad uso de’ sardi (1807) porta avanti il suo propo-sito di dar vita ad un ulteriore elemento di crescita culturale, uno spazio appropriato al dibattito esistente in Sardegna.
I principi sui quali si fonda la letteratura didascalica sono richiamati da Mas-sala per proporre uno strumento nuovo e più duttile per la diffusione delle idee e delle moderne concezioni scientifiche: il giornale letterario. Con lui si manifesta l’esigenza di dar vita a un capace di offrire spazio appropriato al dibattito esistente in Sardegna.
Giuseppe Cossu
Funzionario del governo piemontese, Giuseppe Cossu dedicò ogni energia al piano di riorganizzazione dei Monti predisposto dal conte Bogino. Con quello strumento il governo piemontese intendeva porre rimedio alla miseria dei contadini privi di capitali e quindi oppressi dall’usura, oltre che dal fisco.
I Monti, dotati i propri terreni sui quali gli agricoltori avrebbero potuto lavo-rare gratuitamente, disponevano anche delle scorte granarie da anticipare per la semina.
Ogni azione di Giuseppe Cossu, funzionario sabaudo, venne sorvegliata e guidata da Torino, censurata e respinta quando non conforme agli orien-tamenti impressi al processo di rifiorimento della corte piemontese.
Cossu nutriva infinita fiducia nella possibilità di contribuire attraverso una seria pianificazione economica, al risollevamento delle sorti dell’isola e dei suoi abitanti. Quando si accorse che la coltura granaria non avrebbe potuto, da sola, determinare un radicale risanamento delle condizioni economiche dell’isola, egli pensò alla possibilità di rifiorire che veniva offerta a tutta l’Europa (quindi, anche alla Sardegna) dalla coltura del gelso, dall’alleva-mento dei bachi da seta e dalla sua produzione.
Per diffondere le sue idee scrive, in sardo campidanese, La coltivazione de’ gelsi e propagazione de’ filugelli in Sardegna, un vero e proprio manuale di istruzioni per gli agricoltori.
Cossu è il primo teorizzatore della sinergia: egli riteneva infatti che, per la creazione di una nuova società, il letterato, o comunque chiunque avesse avuto la possibilità di studiare o di viaggiare, dovesse collaborare con chi lavora i campi, aggiornandolo sulle nuove tecniche agricole per trarre così dalla terra il maggior rendimento possibile.
Della riflessione sui problemi economici della Sardegna, esercitata lungo tutto l’arco di un’esistenza operosa, rimangono molteplici documenti. In pri-mo luogo gli scritti d’ufficio, le relazioni, le istruzioni sempre precise, detta-gliate, non di rado ricche di riflessioni originali; e poi le numerose opere composte per la pubblicazione:
- 1787, Discorso sopra i vantaggi che si possono trarre dalle pecore sarde
- 1788-1789, La coltivazione dei gelsi
- sempre nel 1789 la Istruzione olearia e i Pensieri sulla moneta papiracea, Del cotone arboreo e il Metodo per distruggere le caval-lette
- 1790, Saggio sul commercio della Sardegna
Cossu scrisse anche opere di carattere geografico sulle città di Cagliari e di Sassari e una Descrizione geografica della Sardegna.
A differenza di Purqueddu, Cossu rinuncia a scrivere in versi. E’ una scelta importante: prosa, anziché poesia, significa chiaramente la volontà di rag-giungere, con uno strumento realmente accessibile, un pubblico non avvezzo alla lettura di componimenti letterari.
Al di là delle scarse qualità letterarie, il lavoro del Cossu si segnala per l’o-rizzonte ideale al cui interno si muove, per l’enorme fiducia nelle possibilità dell’educazione, della discussione che affronta tutti i problemi e dalla quale ogni dubbio viene sciolto; per la convinzione, tutta illuministica, che l’uma-nità sia giunta a una svolta: da quel punto in avanti i lumi rischiareranno la strada degli uomini che vanno verso la civiltà e il progresso.
Le opere del Cossu, come più in generale l’intera produzione didascalico-scientifica, testimoniano dello sforzo compiuto dalla classe dirigente e intel-lettuale sarda, nella seconda metà del Settecento, per strappare il paese al-l’arretratezza e all’isolamento.
Il pensiero filosofico e politico
Il nome di Giovanni Maria Dettori, teologo e scrittore, è legato ad un’ac-cesa disputa teologica. Sospettato di liberalismo, pagò con la perdita della cattedra la fedeltà alle sue convinzioni. Egli si meritò una lode del Gioberti nel Primato civile e morale degli italiani (VIII,5).
Un altro personaggio la cui fama varcò i confini della regione, è Domenico Alberto Azuni (1749-1827).
Egli è uno dei protagonisti del dibattito del periodo. Studioso di diritto, au-tore del Droit maritime de l’Europe (1805) e, tra l’altro, dell’Histoire géo-graphique, politique et naturelle de la Sardaigne, Azuni appartiene alla ge-nerazione cresciuta nell’università rinnovata e la sua opera mostra tracce evidenti sia della qualità degli studi compiuti sia della vastità dell’orizzonte indagato. Benché si mantenga su posizioni di condanna rispetto alle punte più avanzate della filosofia contemporanea, nella sua opera traspare la sua volontà riformatrice, che è espressa come necessità di inserire la Sardegna nel contesto europeo attraverso la razionalizzazione dei vari settori della vita dello stato e il miglioramento dei rapporti economici e culturale tra i diversi stati.
Il Settecento si chiude placidamente tra melodrammi, arcadi e sarcasmi cittadini; si chiude, invece, coi tragici strascici di una rivoluzione fallita, durata quasi tre anni (1793-1796).
Nell’epoca rivoluzionaria tanto il sardo quanto l’italiano escono dagli argini controllati delle gerarchie linguistiche e dei generi letterari, per irrompere con una rinnovata vitalità nell’agone politico. Sono infatti, in italiano e in sardo, rispettivamente L’Achille della sarda rivoluzione e l’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu entrambi elaborati negli ambienti democratici isolani, influenzati dalla cultura francese e dallo spirito rivoluzionario d’oltralpe.
Ma in italiano è anche La storia de’ torbidi, analisi storico-politica della ri-voluzione sarda elaborata, a posteriori, negli ambienti reazionari vicini alla corte. A margine di queste opere, occorre citare l’Autobiografia di Vincenzo Sulis (1758-1834) – recentemente riedita da Giuseppe Marci – il capopopo-lo cagliaritano, protagonista degli anni 1793-1799, esiliato, dopo ventuno anni di carcere, nell’isola della Maddalena.
I testi riflettono ovviamente la diglossia vigente, ma anche mostrano quanto le strategie rivoluzionarie intendessero dirigere la propaganda sia verso le classi dirigenti – nessun mutamento in Sardegna è mai partito dal basso – sia verso i contadini e i piccoli proprietari dei centri rurali, ostili alla vigenza del sistema feudale.